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Dante, selezione dalla Commedia a cura di Carlo Colognese – Parte Sesta


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Nel decimo Canto, Dante, guelfo "bianco" e in quanto tale condannato all'esilio nel 1302, incontra fra i dannati nel sesto cerchio dell' Inferno - quello dove si trovano le anime che hanno peccato di incontinenza e in particolare di eresia - due fiorentini illustri. Si tratta di Farinata degli Uberti, che era stato capo dei ghibellini, e di Cavalcante de' Cavalcanti, padre dell'amico di gioventù del poeta, Guido. Così Firenze fa da sfondo alle disquisizioni tra i personaggi, tra lotte di fazioni e ricordi nostalgici.

Introduzione e voce di Carlo Colognese

Illustrazione di Gustavo Doré

Episodi precedenti:

Parte Quinta
Parte Quarta
Parte Terza
Parte Seconda
Parte Prima

CANTO DECIMO

Ora sen va per un secreto calle,

tra ’l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.

«O virtù somma, che per li empi giri

mi volvi», cominciai, «com’a te piace,
parlami, e sodisfammi a’ miei disiri.

La gente che per li sepolcri giace

potrebbesi veder? già son levati
tutt’i coperchi, e nessun guardia face».

E quelli a me: «Tutti saran serrati

quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati.

Suo cimitero da questa parte hanno

con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno.

Però a la dimanda che mi faci

quinc’entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci».

E io: «Buon duca, non tegno riposto

a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m’hai non pur mo a ciò disposto».

«O Tosco che per la città del foco

vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.

La tua loquela ti fa manifesto

di quella nobil patria natio
a la qual forse fui troppo molesto».

Subitamente questo suono uscìo

d’una de l’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio.

Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?

Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ’l vedrai».

Io avea già il mio viso nel suo fitto;

ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto.

E l’animose man del duca e pronte

mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte».

Com’io al piè de la sua tomba fui,

guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».

Io ch’era d’ubidir disideroso,

non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in suso;

poi disse: «Fieramente furo avversi

a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fiate li dispersi».

«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte»,

rispuos’io lui, «l’una e l’altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte».

Allor surse a la vista scoperchiata

un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata.

Dintorno mi guardò, come talento

avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,

piangendo disse: «Se per questo cieco

carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?».

E io a lui: «Da me stesso non vegno:

colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».

Le sue parole e ’l modo de la pena

m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.

Di subito drizzato gridò: «Come?

dicesti "elli ebbe"? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».

Quando s’accorse d’alcuna dimora

ch’io facea dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.

Ma quell’altro magnanimo, a cui posta

restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa:

e sé continuando al primo detto,

«S’elli han quell’arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.

Ma non cinquanta volte fia raccesa

la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa.

E se tu mai nel dolce mondo regge,

dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?».

Ond’io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio

che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio».

Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,

«A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.

Ma fu’ io solo, là dove sofferto

fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto».

«Deh, se riposi mai vostra semenza»,

prega’ io lui, «solvetemi quel nodo
che qui ha ’nviluppata mia sentenza.

El par che voi veggiate, se ben odo,

dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo».

Quando s’appressano o son, tutto è vano

nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.

Però comprender puoi che tutta morta

fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta».

Allor, come di mia colpa compunto,

dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che ’l suo nato è co’vivi ancor congiunto;

e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,

fate i saper che ’l fei perché pensava
già ne l’error che m’avete soluto».

E già ’l maestro mio mi richiamava;

per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu’ istava.

Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:

qua dentro è ’l secondo Federico,
e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio».

Indi s’ascose; e io inver’ l’antico

poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.

Elli si mosse; e poi, così andando,

mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando.

«La mente tua conservi quel ch’udito

hai contra te», mi comandò quel saggio.
«E ora attendi qui», e drizzò ’l dito:

«quando sarai dinanzi al dolce raggio

di quella il cui bell’occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il viaggio».

Appresso mosse a man sinistra il piede:

lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
per un sentier ch’a una valle fiede,

che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo.

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