È diventato di moda parlare male del sindacato. E addossare alle tre confederazioni la responsabilità di tutte le disfunzioni del sistema. I salari sono bassi? Colpa dei sindacati. Le adesioni diminuiscono? Colpa dei sindacati. I rinnovi contrattuali ritardano? Colpa dei sindacati. Potremmo andare avanti a lungo, le disfunzioni sono tante e trovare un responsabile fa sempre comodo.
La più recente critica rivolta ai sindacati è quella di essere allo stesso tempo uno e trino. Non perché sono tre le confederazioni, ma perché ogni confederazione ha all’interno tre corpi: la struttura confederale, che fa politica, le categorie, che fanno contrattazione, Caf e patronati che erogano servizi. Tre funzioni distinte che, secondo una tesi sostenuta nel saggio di Andrea Garnero e Roberto Mania, “La questione salariale’’, non possono essere gestite assieme, tanto è vero che il sindacato è globalmente in crisi.
L’accusa è severa e per questo vale la pena di guardare un po’ più da vicino questa realtà una e trina. Cominciamo dall’ultima funzione, quella dei servizi fiscali e previdenziali. Patronati e Caf offrono un servizio per tutti i cittadini, iscritti e non, svolgendo un lavoro che lo Stato e gli enti previdenziali non riescono a fare e che di fatto non fanno più perché, appunto, ci sono Caf e patronati. E per questo lo Stato riconosce loro una somma per ogni servizio svolto. Una cifra che forse all’inizio non era irrisoria, ma che poi è stata ampiamente tagliata da diversi governi. I sindacati ci guadagnano, certamente, anche perché i cittadini assistiti entrano in contatto con la macchina sindacale e magari si iscrivono. Ma resta che Caf e patronati svolgono un servizio importante, senza di loro la macchina fiscale e previdenziale si bloccherebbe. E ogni anno gli ispettori del lavoro controllano tutte, proprio tutte le pratiche svolte dagli enti. E non per tutte è previsto un corrispettivo, solo per una su quattro, le altre tre sono espletate per aiutare chi ne ha bisogno. Durante il lock down, oltretutto, Caf e patronati sono sempre rimasti aperti, per garantire supporto ai cittadini.
Sono realtà che funzionano separatamente dalle confederazioni, con personale, sedi e strutture autonome, e dunque è da escludere che il loro lavoro incida sulla vita e la funzionalità delle confederazioni.
C’è poi la seconda funzione, quella svolta dalle federazioni di categoria. Utile, ma spesso, secondo i critici, carente e tardiva. I contratti si rinnovano, si, ma con grandi ritardi e senza aumentare i salari quanto sarebbe necessario. Ma è davvero così? Intanto occorre distinguere i contratti pubblici da quelli privati. I primi sono sempre in ritardo, di anni, e portano pochi soldi nelle tasche dei lavoratori. Ma in questo caso la responsabilità è del governo, che ritarda le trattative e mette in bilancio risorse sempre molto più basse del necessario. Quando scoppiò la grande crisi del 2008, il governo dell’epoca non ebbe esitazioni e bloccò la contrattazione pubblica per ben sette anni. Una perdita secca per i lavoratori, mai più recuperata. L’Aran fa il proprio dovere, contratta al meglio, ma le risorse sono quelle e dalla tenaglia non si esce.
Diverso il racconto per i contratti privati, nei quali occorre però distinguere tra le categorie che vivono una buona congiuntura e quelle che se la passano male. Nel primo caso il sindacato non ha problemi, presenta piattaforme rivendicative adeguate, negozia, spesso in pochissimo tempo, e i salari aumentano quanto necessario per mantenere il loro potere di acquisto. Poi ci sono i settori poveri e qui trovare l’accordo è più difficile, perché mancano le risorse. I sindacati tengono ferma la posizione, non arretrano, ma un’intesa è oggettivamente difficile. Lo stesso avviene in settori che vivono difficoltà transitorie, perché non hanno sufficienti prospettive e certezze di mercato. Che potrebbero venire solo da un’accorta politica industriale, politica che però il governo non predispone, generando così nuova insicurezza e mettendo in crisi tutti: aziende, sindacati, lavoratori.
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