Ciao, questo è l’ultimo episodio della seconda stagione, registrato il 20 luglio, nel giorno del mio quarantesimo compleanno. 

L’episodio nasce da una frase che ho letto di recente e che mi ha colpito profondamente, e che credo sia il cuore di tutto ciò che condivido qui. Pensiamo spesso che la sfida sia raggiungere di più, correggerci, migliorarci. Ma forse la vera sfida – molto più semplice e molto più difficile – è accettare quanto siamo già meravigliosi, pieni, potenti.

Tu non sei chi pensi di essere. Sei molto di più. E i tuoi momenti migliori – quelli in cui tutto fluisce, in cui ti senti ispirato e lucido – lo dimostrano già.

Quindi questo è il mio augurio per te, e per me, per l’anno che viene:

Che possiamo credere alla verità su chi siamo davvero, non importa quanto meravigliosa sia.

Grazie di cuore. Ci sentiamo nella prossima stagione.

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Eccellenza e semplicità vanno di pari passo. Mi accorgo che rendo di più proprio dove non porto rumore—niente storie, niente pesantezza, nessun pensiero di troppo. È lì che tutto sembra naturale, ovvio, facile. Solo perché nella mia mente non l’ho reso difficile.

In questo episodio condivido un esempio personale su come questo si manifesta nel mio lavoro, e ti invito a esplorare dove potrebbe succedere anche nella tua vita. Ti propongo anche un esperimento semplice per capire dove si nasconde il tuo “rumore” interno. A volte, dove ci sentiamo bloccati o inadeguati, stiamo solo aggiungendo significati che non servono.

E se la tua grandezza fosse già semplice e ovvia—basta solo smettere di appesantirla?

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Questo episodio nasce da una conversazione intensa con una cliente che ha notato qualcosa che, probabilmente, conosciamo tutti: quando forziamo le cose—chiamate, vendite, risultati—non funziona. O almeno, non con quella facilità e naturalezza che cerchiamo davvero.

Abbiamo esplorato la differenza tra cosa facciamo e da dove viene l’azione. Puoi fare 12 telefonate o mandare 10 promemoria ed essere ancora perfettamente in sintonia—oppure non fare nulla e sentirti completamente fuori fase. Perché la sensazione di “forzare” non nasce dall’azione in sé, ma dallo stato da cui agiamo.

Quando forziamo, ci rimpiccioliamo. Diventiamo come tutti gli altri: agiamo dalla contrazione, dall’insicurezza, dalla forza di volontà. Ma quando ci muoviamo dalla presenza—dalla chiarezza, dalla pace, da un desiderio genuino—è lì che appare il nostro genio. È lì che appariamo noi.

E quando io arrivo come me stesso, non come un fascio di tensione ma come Nico, tutto diventa più semplice, più fluido e molto più efficace.

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Tutti i nostri sforzi per stare meglio, performare meglio, essere più resilienti… abbiamo guardato nella direzione sbagliata, anche se in buona fede. Pensiamo che sia tutto nella mente. Lavoriamo sui pensieri, sull’identità, sulla forza di volontà. E a volte, sì, sembra che aiuti. Ma nel profondo lo sappiamo: il nostro meglio non viene dall’intelletto. Non è mai venuto da lì.

Viene da un’altra parte.

Io lo chiamo Spirito. Tu potresti chiamarlo in un altro modo. Ma il momento in cui smettiamo di trattare la mente come se fosse il centro di controllo e iniziamo a guardare verso quella fonte più profonda—è lì che tutto cambia.

E in fretta.

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Questo episodio nasce da una domanda semplicissima: "Come stai?"—e dalla consapevolezza che quasi tutti rispondiamo con qualcosa che va da “bene dai” a “abbastanza male”. Raramente diciamo: “Mi sento alla grande”, anche quando è vero. Ma perché?

Ho iniziato a vedere quanto profondamente abbiamo normalizzato la fatica. Ci aspettiamo che gli altri siano stressati o appesantiti, e spesso ci vergogniamo a condividere il nostro benessere. Ma se fosse solo un malinteso culturale? E se stare bene—sentirsi vivi—non fosse un segno di disinteresse, ma il modo più potente e autentico di dimostrare che ci importa davvero?

Parlo della pressione invisibile che ci mettiamo addosso per sembrare “seri” o “responsabili”—perché ci hanno insegnato che la sofferenza equivale al valore. Ma se guardiamo bene, sappiamo che i nostri giorni migliori, le nostre performance migliori, arrivano quando ci sentiamo leggeri, presenti, vivi. Non è lo sforzo che alimenta la nostra grandezza—è lo Spirito.

Siamo stati tutti un po’ come i personaggi nella storia dei vestiti nuovi dell’imperatore—facendo finta di non vedere quello che è evidente. Forse è ora di essere come il bambino nella fiaba: diretto, sincero, e abbastanza libero da dire “Ehi… e se non fosse vero?”

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L’intuizione della scorsa settimana mi ha colpito così tanto che ho sentito il bisogno di approfondirla. E se il modo più potente di prendersi cura, tenerci, essere responsabili non fosse lo sforzo o la preoccupazione, ma la presenza? Essere se stessi è un atto altruista. È così che dimostriamo amore. È così che diamo il meglio. Ed è il modo più efficace e generoso per prenderci davvero responsabilità—sul lavoro, in famiglia, nella vita. Forse finora stavamo solo guardando dalla parte sbagliata.

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E se "tenerci tanto a cose e persone" non significasse soffrire? Questo episodio parte da una frase inglese semplicissima e molto comune: sharing is caring, “condividere è prendersi cura/tenerci” — la quale apre le porte a una realizzazione radicale: il modo più autentico di dimostrare che ci teniamo potrebbe essere semplicemente quello di condividere chi siamo davvero. Non attraverso la preoccupazione o lo sforzo, ma attraverso la presenza, la luce e l’amore. Esploriamo come, culturalmente, abbiamo finito per associare il "tenerci" alla fatica, all’ansia e al peso—ma non è così che funzioniamo. Forse la risposta è nell'avere il coraggio di essere noi stessi fino in fondo.

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Com’è sentirsi davvero presenti, esprimersi senza trattenersi, con il cuore al cento per cento?

In questo episodio condivido una realizzazione importante, emersa dopo un recente evento lavorativo. Quando ci presentiamo con totale presenza—non per dimostrare, piacere o vincere, ma come atto di vera espressione di sé—succede qualcosa di inaspettato: non sentiamo il bisogno di ripensare o correggere il passato. Semplicemente, andiamo avanti. Siamo già pieni.

Che tu sia un atleta, un leader o chiunque si esprima nel mondo, questa distinzione cambia tutto. Si tratta di esserci davvero, con tutto te stesso, non di ottenere i risultati. E la cosa interessante è che quando mi esprimo così, poi i migliori risultati inevitabilmente vengono raggiunti come conseguenza.

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In questo episodio condivido una realizzazione sottile ma potentissima: con una comprensione più profonda, i pensieri diventano meno “appiccicosi”. Non si tratta di non avere pensieri negativi—la tristezza, lo stress, le preoccupazioni continuano ad apparire—ma restano meno. Passano, non si attaccano. Esploriamo la differenza tra pensieri che si attaccano a noi come Velcro e pensieri che scorrono, e come tutto questo non abbia nulla a che vedere col controllo, ma solo con la comprensione. Come il Velcro che non trova più la "controparte" giusta, la nostra mente diventa un terreno meno fertile per la sofferenza.

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E se i tuoi momenti migliori—quelli calmi, lucidi, in cui sei pienamente presente—non fossero eccezioni, ma la norma?

In questo episodio condivido due esperienze diverse: affrontare un ragno con tranquillità e gestire un’ora piena di cose da fare. In entrambi i casi, la mente era incredibilmente quieta—una cosa che, fino a qualche anno fa, sembrava impossibile.

Quella quiete mentale non è solo piacevole. È potente. È da lì che arrivano chiarezza, creatività ed efficacia.

Spesso crediamo che la fretta e il rumore mentale siano necessari per agire. Ma se non solo non aiutassero—e se fossero addirittura opzionali?

Quando smettiamo di dare attenzione ai pensieri, la vita si semplifica. E noi diventiamo migliori.

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