Commento a Atti 12, 18-23
Roso dai vermi, si sfiatò
Dopo la nascita di Pietro, uomo nuovo, segue la morte di Erode, l’uomo vecchio. Nascere e morire sono due facce d’un solo mistero, un “colpo” dell’angelo del Signore della vita. Per sé Dio non uccide nessuno. Ma la vita è amore; e l’amore è come il respiro: chi lo dà lo riceve, chi lo trattiene, soffoca. Per questo chi vuol salvare se stesso, si perde; mentre chi perde se stesso, è salvo. C’è una morte viva, propria di chi ama, e una vita morta, propria di chi si chiude nell’egoismo. Per chi ama, la stessa morte è porta alla risurrezione; per chi è chiuso nell’egoismo, la stessa sua vita è sepolcro e seme di morte. La sua morte fisica sarà solo la fine del suo male; resterà di lui il bene, ossia l’amore che ha vissuto ( cf 1Cor 3,10-17).
Il giusto perseguitato è liberato dalla morte prodigiosamente. Il persecutore, che dà la morte, muore spaventosamente. È il capovolgimento della storia, come nel racconto di Ester e nella parabola del ricco epulone. È ciò che canta il magnificat di Maria: il raddrizzamento del mondo storto.
Farsi Dio è il peccato originale. Non perché Dio sia geloso: ci ha fatti uguali a lui. Il male è la falsa immagine che abbiamo di lui. Dio è esattamente il contrario di ciò che pensiamo di lui. In ogni cultura il re è un essere divino: ricco, forte, potente e libero … libero di dare la morte a chi non si sottomette ( cf. apologo di Iotam: Gdc 9,7ss). Dio invece è libero solo di dare la vita: suo potere è amare, sua forza è servire, sua ricchezza è dare tutto, sino a dare se stesso.
La morte di Erode, roso vivo dai vermi, non è punizione divina. È semplice visibilizzazione di ciò che è stata la sua esistenza: un pullulare di vermi al pascolo. Ciò che ammiriamo come un dio, è un semplice essere putrido di morte.
Erode è il re, il modello di uomo riuscito. Rappresenta ciò che ognuno vorrebbe essere e imita il più possibile. La sua morte serve per farci venire schifo e nausea di ciò che tanto ammiriamo ed è la causa di ogni male personale e sociale. Ci vuol suscitare la stessa sensazione del banchetto dell’altro Erode, suo parente, la cui ultima portata è un vassoio con la testa mozzata del Battista.
Il male, fin dall’inizio, si presenta sempre buono da mangiare, bello da vedere e desiderabile per acquistare saggezza (Gen 3,6). È seducente, ma ingannevole: non mantiene la promessa. Infatti, quando lo compiamo, non siamo soddisfatti: ci scopriamo nudi, piena di paura e in fuga da noi stessi. È importante che il male appaia cattivo, brutto e indesiderabile. Noi sempre desideriamo ciò che sembra buono e bello. Quando il bene sarà bello, vivremo nella pienezza di gioia.
Questo testo ci fornisce elementi per datare la storia della prima comunità: Erode Agrippa I è morto il 5/10 marzo del 44 d.C., più di tre settimane prima di Pasqua (2 aprile del 44). Fu nominatore re della Samaria e della Giudea dall’imperatore Claudio che salì al trono il 25 gennaio del 41. Siccome la navigazione venne ripresa quell’anno il 7 febbraio e il viaggio durava da quattro a sei settimane, il re poté essere a Gerusalemme verso la fine di marzo (il re si mise in viaggio tachista = con fretta Giuseppe Flavio, Antichità Giudauche, 19,293)– la pasqua era il 5 aprile nel 41. Per far subito bella figura davanti al popolo è probabile che abbia anche organizzato la persecuzione contro i capi cristiani: uccisione di Giacomo e poi quella di Pietro, fallita e sostituita… La tradizione cristiana, secondo Clemente Alessandrino (Stromata, VI, 5, 43) ed Eusebio (Hist. Eccl. V,”8,!4), dice che Pietro rimase a Gerusalemme 12 anni e ne passò 25 anni a Roma, dove arrivò nel secondo anno dell’impero di Claudio, quindi prima del 25 gennaio del 43 d.C. ( Pietro si dilegua dopo la liberazione dal carcere e va a Roma partendo una prima volta da Antiochia per fare un temporaneo ritorno per il “Concilio di Gerusalemme” dopo la morte di Erode (Atti, 15). Giacomo, fratello del Signore (cf. Mc 6,3; Mt 1,55; At 12,17; 15,13; 21,18; 1 Cor 15,17; Gal 1,19; 2,9.12; Gc 1,1; Gd 1), essendo un Giudeo cristiano più ligio alla tradizione, è potuto restare più a lungo a Gerusalemme.
Come la morte di Giuda e poi di Anania e Saffira, così anche questa di Erode è spesso intesa come punizione divina. In realtà non è così: è la morte dell’empio, che svela e distrugge la sua empietà. Il Signore è morto per i peccatori e vuol salvar tutti, portandoli alla conoscenza della verità (cf Rm 5,6-11; 1Tm1,15; 2,4). E ci riesce con la sua croce, facendosi lui stesso maledizione e peccato, agnello di Dio che porta su di sé il male del mondo (Gal 3,13: 2Cor 5,21; Gv 1,29). Per questo nulla ci può separare dall’amore che Dio ha per noi (Rm 8,35ss). È chiaro però che tutto ciò che facciamo di male non può sussistere, se non bruciato nel fuoco della misericordia: il legno verde che brucia invece del legno secco (cf Lc 23,31). Dio dà la vita e desidera che sia buona e felice; alla fine vuol dare a tutti non la morte, ma se stesso, sorgente di amore e vita. L’esistenza terrena però è affidata alla nostra respons-abilità personale e comunitaria: siamo chiamati tutti a rispondere all’amore con l’amore. Che colpa ha Dio se un casa costruita sulla sabbia o senza fondamenta vicino a un torrente crolla? Sta a noi costruire sapientemente con buone fondamenta sulla roccia dell’amore, usando pietre e non paglia. Tutto ciò che è male, alla fine brucerà nel rogo della misericordia della croce. Di noi resterà nulla di ciò che abbiamo fatto di male: resterà la nostra risposta d’amore e soprattutto il nostro essere figli di Dio, nostra vera casa, e la vastità preziosa della sua infinita misericordia sulle nostre miserie (cf 1Cor 3,10-16). Che il traditore precipiti dall’alto e si squarci nel mezzo effondendo le sue viscere, è segno visibile della rottura che l’ha lacerato dal di dentro – male per il quale il suo amico e maestro è morto. Che Anania e Saffira muoiano all’istante per la loro menzogna, visibilizza che la menzogna uccide all’istante la verità e ogni relazione; che Erode sia roso dai vermi visibilizza la sintesi della sua vita: strisciò come verme davanti a più imperatori per avere il Tetrarcato di Palestina e davanti al popolo per essere gradito.
DIVISIONE
a. vv. 18- 19: alle guardie tocca la sorte di Pietro
b. vv. 20-22: lo splendore del re, acclamato come dio
c. v. 23: fine dell’empio che si autoesalta