vedi libro: https://www.libri.it/uomo-alla-finestra
Era il 1992 quando L’uomo alla finestra usciva per la prestigiosa collana di letteratura I Canguri di Feltrinelli, affermandosi come uno dei primi fumetti realizzati volutamente in forma di romanzo. Ventisei anni dopo, il libro viene riproposto da #logosedizioni in una veste grafica rinnovata e con l’aggiunta di contenuti inediti, come prima uscita di una collana che ripercorre le principali opere del Mattotti fumettista.
L’autrice dei testi, Lilia Ambrosi, nella sua prefazione parla della necessità di fermare un viaggio, quello che lei e Mattotti avevano compiuto insieme nella vita e nell’arte, condividendo “molta poesia, qualche sogno, tanti paesaggi e alcune speranze”. Tra queste ultime, in particolare, il riconoscimento della dignità del fumetto come mezzo artistico, una cosa che al tempo era tutt’altro che scontata. E non c’è dubbio che L’uomo alla finestra, da molti salutato come il primo graphic novel pubblicato in Italia, rappresenti un passo importante in questa direzione. Protagonista del libro è uno scultore “dagli occhi morbidi e gli sguardi stupiti”, che per vivere lavora come magazziniere alle poste. Il fatto che non abbia un nome ci porta da un lato a identificarlo con l’autore della storia che sappiamo essere almeno in parte autobiografica, dall’altro a immedesimarci in lui assumendo il suo punto di vista.
Come vuole il titolo del volume, l’uomo ci appare nelle prime pagine – e lo sarà anche nelle ultime – intento a guardare fuori attraverso la finestra. Dalla sua casa può vedere il panorama della città che muta, con le fabbriche dismesse che vengono via via abbattute per costruire un centro direzionale. Dalla sua finestra sui tetti riesce a sentire lo stridere dei freni dei camion e immagina altre luci, tiepide quotidianità lontane. L’uomo ama anche camminare perché camminando è più facile parlare con sé stessi.
Fin da subito, il protagonista del libro sembra essere alla ricerca di qualcosa e man mano che il racconto procede capiamo che si tratta di un punto di equilibrio, una definizione, un appiglio nel trascorrere caotico dell’esistenza. L’uomo si muove in mezzo ad architetture urbane dai contorni netti e al loro confronto appare ancora più evidente il suo essere irrisolto: sia lui sia gli altri personaggi sono infatti disegnati con un tratto sottile e a volte tremulo che tende a sfarinarsi, soprattutto per effetto degli agenti atmosferici – la neve, il vento e la pioggia – a dimostrazione di come tutto sia instabile, pronto a essere spazzato via. Anche il lavoro di scultore in fondo ha lo scopo di restituire un ordine al caos mettendo insieme pezzi di ferro, lamiere, schegge di persiane, motori arrugginiti, leggero filo di rame. È un modo per conservare i resti del passato e riportarli a nuova vita. La stessa cosa che l’uomo vorrebbe fare con le proprie esperienze.
“Le angosce del mondo si possono racchiudere in una mano. Sono sempre le stesse: poche, quattro o cinque, ma infinite” è una frase che l’ex moglie gli rivolge e che potrebbe valere come chiave di lettura dell’intero libro. Stretti alle loro angosce, tutti i personaggi si mostrano fragili e perpetuamente alla ricerca del senso della propria esistenza. Questo vale soprattutto per il protagonista, che con gli altri intreccia relazioni in buona parte funzionali a fargli prendere le misure di sé stesso. Tre donne sono fondamentali in tal senso: la ex moglie, Irene, con cui ha un rapporto tenero e conflittuale, Aurora che incarna l’intensità della passione, e Miriade, un’amica botanica che sta diventando cieca. Irene offre all’uomo l’occasione per rimettersi in discussione e al tempo stesso il suo ricordo è una sorta di faro che lo guida, un ideale da riacciuffare con la consapevolezza dei propri errori passati.
Francesca Del Moro