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Metalmeccanici, tra immobilismo e silenzi il “contrattone” resta in stallo: solo una scossa lo salverà, di Massimo Mascini


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Una volta, nei favolosi anni 70, si diceva che il contratto dei metalmeccanici si rinnovava solo con 100 ore di sciopero e, aggiungevano gli sfegatati, se le bandiere rosse sventolavano sui tetti dello stabilimento di Mirafiori occupato. Non era proprio così, ma effettivamente il rinnovo del contrattone dei meccanici era allora un affare complicato e costoso. Ne valeva la pena, però, perché in quegli anni, nel 1969, nel 1973, nel 1976 furono raggiunti risultati molto importanti: un nuovo modo di contrattare, i consigli di fabbrica, l’inquadramento unico, le 150 ore di formazione, una differente e più avanzata organizzazione del lavoro.

Tutt’altro clima da quello in cui arranca adesso la trattativa dei metalmeccanici, che fa soffrire come una volta ma non sembra portare grandi risultati. Il contratto è scaduto quasi da un anno e si sono fatte già 32 ore di sciopero, in vista di arrivare a 40 prima della fine di maggio, ma le parti non hanno fatto nemmeno un piccolo passo in avanti. E la cosa peggiore è che sembra che tutti abbiano ragione.

Ce l’hanno certamente i sindacati che chiedono un aumento salariale importante, 280 euro, per cercare di rialzare il livello medio, considerando che negli ultimi cinque anni hanno perso il 10%. Ce l’ha anche Federmeccanica, che fa i conti sulla base degli accordi sottoscritti, ultimo il Patto della fabbrica, secondo i quali non si può andare oltre i 140 euro, che è la cifra offerta ai sindacati e da questi rifiutata.

Hanno ragione le grandi aziende, come Leonardo e altre, che hanno fatto pressione perché si torni al tavolo del negoziato, dal momento che gli scioperi mettono a rischio la produzione in un momento in cui il mercato procede bene (per loro). E hanno ragione le piccole aziende iscritte a Federmeccanica, specie quelle dell’automotive, che non hanno alcuna certezza del proprio futuro, sono in una situazione economica più che difficile e ritengono di non potersi accollare un costo del lavoro più elevato.

Una situazione di stallo, pericolosa perché il clima delle relazioni industriali si imbastardisce, la capacità di trovare una soluzione si appanna, tutto diventa più complesso. Nessuno si azzarda a intervenire, anche se è evidente la grande difficoltà in cui versano le parti al tavolo del negoziato. Non interviene il ministero del Lavoro, che pure una volta era sempre in prima linea nelle vertenze difficili. Non interviene il ministero dello Sviluppo, che forse, mettendo giù le linee guida di un’autentica politica industriale, potrebbe dare qualche certezza alle aziende mettendole magari in condizione di accollarsi un onere salariale più elevato. E non interviene Palazzo Chigi che pure afferma di puntare alla pace sociale e al benessere dei lavoratori.

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