Paul Graham: il pifferaio magico dei nerd

Scrivere e Parlare // Writing and Speaking


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Traduzione in italiano di Augusto Coppola dall’essay originale di Paul Graham "Writing and Speaking" [Marzo 2012].

Non sono un buon oratore: dico “ehm” spesso e, a volte, faccio delle pause perché perdo il filo dei miei pensieri. Vorrei essere un migliore oratore, ma non tanto quanto vorrei essere un buon scrittore. Quello che voglio veramente è avere delle buone idee e questa parte è più importante nell’essere un buono scrittore piuttosto che un buon oratore.

Avere delle buone idee è gran parte dello scriver bene: se uno sa di cosa parla, lo può esprimere in modo semplice e ciò comporta la percezione di un bello stile. Nell’oratoria non è così: avere delle buone idee è una parte pericolosamente piccola dell’essere un buon oratore.

L’ho notato per la prima volta ad una conferenza, diversi anni or sono. C’era uno speaker decisamente migliore di me. Tutto il pubblico rideva rumorosamente. Al confronto, sembravo goffo ed esitante. Dopo l’evento misi il mio intervento online, come al solito, e, mentre lo facevo, immaginai come dovesse essere lo script dell’altro: fu solo allora che realizzai che non aveva detto molto.

Forse questa cosa è piuttosto ovvia a chiunque ne sappia di oratoria, ma per me fu una rivelazione comprendere quanto poco le idee siano importanti nel parlare rispetto allo scrivere.

Pochi anni dopo ebbi modo d’ascoltare l’intervento di qualcuno che non era semplicemente più bravo di me, ma un famoso speaker. Accidenti se era bravo! Così decisi di prestare molta attenzione a quello che diceva e di imparare come lo faceva. Dopo una decina di frasi mi trovai a pensare: “non voglio essere un bravo speaker”.

Essere un buon oratore non è semplicemente ortogonale all’avere buone idee, ma in molti modi vi spinge nella direzione opposta. Ad esempio, quando faccio un intervento lo scrivo prima. Lo so che è un errore, lo so che effettuare un intervento con un discorso preparato rende più difficile coinvolgere l’audience perché per coinvolgerla uno deve prestargli la completa attenzione e, invece, quando si parla su un intervento preparato una parte dell’attenzione è sempre su quello che si deve dire, anche se uno lo sa a memoria. Per coinvolgere l’audience è meglio partire con una scaletta di  argomenti e poi improvvisare le frasi, ma se uno vuol farlo non deve spendere più tempo a pensare cosa dire piuttosto che a farlo. Occasionalmente lo stimolo del parlare ad un’audience può farti pensare a cose nuove, ma in generale non è lo stesso dello scrivere, quando spendi tutto il tempo che vuoi su ogni singola frase.

Se uno si esercita abbastanza su un discorso scritto, può arrivare asintoticamente vicino al tipo di coinvolgimento che si ha quando si parla liberamente: gli attori lo fanno. Ma anche in questo caso c’è un trade off tra scorrevolezza ed idee. Il tempo che si impiega ad esercitarsi in un discorso, potrebbe essere speso più proficuamente a renderlo migliore. Gli attori non cadono in questa tentazione, tranne nei rari casi in cui hanno scritto loro stessi la parte, ma ogni oratore lo fa. Prima di fare un intervento posso sempre essere trovato in un angolino, da qualche parte, con una copia del mio intervento nella mano, mentre faccio le prove mentalmente. E alla fine finisco sempre a riscrivere delle parti piuttosto che provarle. Ogni volta vado sempre a fare un intervento con un manoscritto pieno di annotazioni, integrazioni e cancellature, il che mi rende, ovviamente, ancora meno fluido perché non ho avuto modo di fare pratica sul nuovo intervento.

A seconda dell’audience ci sono anche dei compromessi peggiori di questi. Il pubblico ama essere lusingato, ama le battute, ama essere travolto da un vigoroso fiume di parole. E con la progressiva diminuzione dell’intelligenza del pubblico, essere un buon oratore diventa sempre più una questione di essere un amabile cazzaro. Ciò è vero anche per la scrittura, ovviamente, ma la discesa è meno ripida che nei talk. Ogni persona è più stupida come membro di un’audience che come lettrice. Così come un oratore può, nel pensare ogni frase, spendere solo tanto quanto ci mette a dirla, una persona nel pubblico può pensarci solo il tempo che ci vuole ad ascoltarla. Inoltre le persone del pubblico sono influenzate dalle reazioni di coloro che sono intorno ad esse e le reazioni che si diffondono da persona a persona nel pubblico sono spropositatamente primitive, così come le note più basse attraversano i muri meglio di quelle alte. Ogni audience è potenzialmente una folla in tumulto e un buon oratore lo sa. La ragione per cui risi molto all’intervento dell’ottimo speaker è semplicemente che tutti gli altri lo facevano.

Dobbiamo quindi concludere che i talk sono inutili? Sono certamente inferiori alla parola scritta come sorgenti di idee, ma questo non è quello per cui i talk sono fatti. Quando vado ad un intervento, è generalmente perché sono interessato all’oratore. Ascoltare un intervento è quanto di più vicino possiamo essere ad avere una conversazione con qualcuno come il Presidente, qualcuno che non ha il tempo di incontrare personalmente tutti coloro che vorrebbero parlargli.

I talk sono anche degli ottimi stimoli a fare delle cose. Non è probabilmente una coincidenza che molti oratori famosi siano descritti come motivational speaker e questo può essere veramente lo scopo del public speaking e quello per il quale è stato pensato. Le reazioni emotive che possono scaturire da un talk possono essere una forza potente. Vorrei poter dire che tale forza è più spesso usata per il bene che per il male, ma non ne sono certo.

Note



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Paul Graham: il pifferaio magico dei nerdBy Irene Mingozzi