La felicità per l’uomo comune è un riflesso. Non nasce in lui, ma gli viene restituita dagli altri come un’eco deformata di ciò che ha desiderato non per sé, ma perché lo vide altrove. È nell’ottenere ciò che un tempo invidiò che crede di trovarla. E una volta ottenuto, quel bene, oggetto o condizione, non vale più per ciò che è, ma per ciò che può suscitare negli occhi altrui. La necessità, allora, si fa duplice: possedere e poi esibire, affinché la stessa invidia che lo spinse possa ora, negli altri, riflettersi su di lui.Tutto ciò non è che una recita triste. Una danza cieca attorno a fuochi finti. Ma è propria di chi non basta a se stesso. Di chi ha bisogno di un altro sguardo per esistere, come se senza testimoni la propria vita perdesse consistenza. L’illusione che chiama felicità non è che una forma sottile e meschina di vanità, nutrita dall’invidia passata e proiettata nell’invidia futura. Non vi è nulla di interiore in questo meccanismo, se non il vuoto che lo muove.