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AI e strategia: perché alcuni modelli linguistici pensano meglio di altri e cosa significa per le imprese


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C’è un errore strategico che molte aziende stanno già commettendo, spesso senza rendersene conto: delegano a modelli linguistici la gestione di scelte complesse immaginando che “intelligenza artificiale” significhi “intelligenza umana, ma più veloce”. Eppure, come mostrano gli esperimenti descritti da Rhythm Blues AI nell’articolo pubblicato su “Guida all’AI generativa per dirigenti e imprenditori”, questa equivalenza è non solo imprecisa, ma potenzialmente dannosa.

I dati emersi nei test su tre giochi classici della teoria dei giochi — il p-Beauty Contest, il Guessing Game e il Money Request Game — mostrano un panorama tutt’altro che omogeneo. Alcuni modelli, come GPT-o1, arrivano a superare i 4.38 livelli di ragionamento iterato nel p-Beauty Contest con p = 2/3, e raggiungono un coefficiente di 2.84 nel Guessing Game, numeri superiori anche alle prestazioni medie umane. Altri, come GPT-3.5 o Claude-1, restano a livello 0, replicando risposte casuali o euristiche semplici. In scenari come quello del Money Request Game, dove la logica dell’“undercutting” richiede previsione e adattamento, GPT-o1 mantiene valori tra 1.21 e 1.60, mentre modelli più datati restano fermi a 0 o poco più.

Ma il punto non è solo tecnico. Il vero nodo strategico è che questi modelli non sono intercambiabili. Usare Claude-1 o GPT-3.5 per prendere decisioni in un contesto competitivo è come affidare un ruolo negoziale a un partecipante che non è in grado di anticipare nemmeno la mossa più ovvia dell’avversario. Il rischio non è solo quello di una performance subottimale: è quello di costruire un sistema decisionale che non sa apprendere.

Nel mondo reale, la capacità di iterare mentalmente — prevedere il comportamento degli altri, adattarsi, simulare esiti alternativi — è ciò che distingue una strategia di successo da una reattiva. È questa capacità che consente di navigare tra prezzi dinamici, offerte personalizzate, reazioni della concorrenza. Ed è ciò che solo alcuni modelli di AI generativa oggi dimostrano di saper replicare.

La questione allora diventa: chi governa questi sistemi? L’articolo sottolinea come l’aspetto della governance debba diventare parte integrante della trasformazione digitale. Non basta “inserire un modello AI” in un processo: serve sapere quale modello usare, come istruirlo, quando fidarsi. L’effetto dei round ripetuti nel p-Beauty Contest — dove GPT-o1 migliora progressivamente — ci mostra che il feedback iterativo può funzionare, ma solo se esiste una struttura che lo sostiene e lo interpreta. Senza ciò, anche un modello sofisticato può diventare cieco.

Da qui nasce una riflessione non ovvia ma necessaria: forse non dobbiamo cercare modelli linguistici che “simulino” l’intelligenza umana, ma modelli che siano progettati per lavorare in tandem con l’intelligenza umana, compensandone i limiti ma anche ricevendone guida. L’AI generativa non è un sostituto, ma un complemento strategico. E questo cambia il modo in cui le aziende devono pensare all’adozione tecnologica: non più come un’implementazione tecnica, ma come una partnership cognitiva.

Il valore che emerge dai dati numerici — ad esempio, la performance differenziale tra GPT-4 (τ = 2.39 nel p-Beauty a p = 2/3 ma 0 in p = 4/3) e GPT-o1 (che mantiene performance anche nei casi più controintuitivi) — non è solo una questione di accuratezza. È la dimostrazione che alcuni modelli apprendono la struttura del pensiero strategico, altri no. E questa è la linea di separazione tra un’azienda che ottimizza le decisioni nel tempo e una che resta incagliata in scelte miopi.

In conclusione, ciò che serve oggi ai dirigenti non è solo una formazione su cosa fa l’AI, ma su come pensa. Solo così sarà possibile costruire organizzazioni capaci di usare modelli linguistici non come strumenti ciechi, ma come alleati intelligenti in scenari ad alta complessità. Forse, la vera sfida strategica dell’AI non è scegliere il modello più potente, ma saper chiedere: conosce il gioco?

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Rhythm Blues AIBy Andrea Viliotti, digital innovation consultant (augmented edition)