Quando pensiamo all’adozione dell’Intelligenza Artificiale, immaginiamo aziende tech, laboratori di ricerca all’avanguardia o startup affamate di innovazione. E invece... spunta la Pubblica Amministrazione italiana. Sì, proprio quella, spesso etichettata come lenta, burocratica, persino allergica al cambiamento. Ma la realtà – e qui viene il bello – è che la PA si è trasformata in un laboratorio di apprendimento prezioso per chiunque voglia affrontare seriamente l’adozione strategica dell’AI. Perché è nei contesti più complessi e strutturalmente fragili che emergono le vere regole del gioco.
La lezione? L’AI non è un tool. È un modo nuovo di pensare, decidere, lavorare. E adottarla senza trasformare prima processi, cultura e competenze equivale a installare un motore da jet su una bicicletta arrugginita.
Pensate a VeRa, l’algoritmo dell’Agenzia delle Entrate: ha ridotto l’evasione fiscale analizzando milioni di dati, ma è stato efficace perché incastonato in una visione precisa, con obiettivi misurabili e governance chiara. Oppure all’INPS, che ha usato un modello linguistico per smistare milioni di PEC, liberando decine di migliaia di giornate lavorative. L’AI, in questi casi, è stata una soluzione a un problema pressante, non un oggetto di moda da piazzare in una vetrina digitale.
Ma c’è di più. L’adozione strategica dell’AI non può avvenire in un deserto di competenze o in un’arena aziendale governata da “capi e capetti”. Serve leadership vera, capace di pensare in grande, di unire silos, di valorizzare il capitale umano invece di soffocarlo. Il modello emergente? Il Chief AI Officer. Figura ponte tra tecnologia, business e governance etica. Non un nuovo titolo da aggiungere su LinkedIn, ma un ruolo strategico per costruire continuità tra innovazione e sostenibilità.
E qui entra in gioco un concetto che fa tremare le fondamenta di molte organizzazioni: la sovranità digitale. Tradotto: chi controlla la tua AI? Dove sono custoditi i tuoi dati? A chi appartiene il codice che guida le tue decisioni? Scegliere una tecnologia AI oggi significa anche scegliere di chi fidarsi domani. E non è una questione puramente tecnica: è geopolitica d’impresa, è strategia, è autonomia.
E se tutto questo vi sembra ancora troppo astratto, fatevi una semplice domanda: l’AI nella vostra azienda serve a velocizzare l’esistente o a immaginare l’inesistente? Perché il rischio più concreto non è il fallimento tecnologico, ma il successo nell’automatizzare l’inefficienza.
Certo, non tutto brilla. La PA, come ogni organizzazione complessa, è anche il regno delle resistenze passive, della carenza di competenze diffuse, della frammentazione dei dati. Ma è proprio in questo groviglio che si cela la più grande opportunità: imparare da chi affronta l’adozione dell’AI con vincoli reali, con persone reali, con problemi reali.
E allora, invece di guardare oltreoceano in cerca del prossimo modello da copiare, forse vale la pena osservare cosa succede a pochi chilometri dai nostri uffici. Perché, paradossalmente, il futuro dell’AI aziendale potrebbe somigliare più a un algoritmo per smistare PEC che a un robot che serve caffè nel metaverso.
Un mio immaginario avo direbbe: “Se vuoi cambiare il mondo, inizia cambiando la logica del tuo foglio Excel.”
Il prossimo errore? Pensare che basti premere un bottone per diventare intelligenti.