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Vi è mai capitato di avere tra le mani una mappa del tesoro, di percepire il potenziale immenso nascosto sotto i vostri piedi, ma di ritrovarvi a scavare con un semplice cucchiaino? Questa è la fotografia esatta del mondo aziendale di oggi di fronte all'Intelligenza Artificiale Generativa. Una tecnologia che promette di sbloccare un valore globale che sfiora i 4.4 trilioni di dollari annui, ma che per ora, per la stragrande maggioranza, rimane una promessa. Si è innescato un paradosso quasi beffardo: oltre il 78% delle imprese la sta già usando, ma più dell'80% di queste ammette di non vederne un ritorno economico tangibile. Come è possibile?
L'errore è considerare la GenAI l'ennesimo software da installare. La verità è che non è uno strumento di automazione, ma un'estensione della mente aziendale, un partner cognitivo. Il problema non è la tecnologia, ma la strategia. In troppe realtà, l'adozione è una fioritura spontanea e caotica di "micro-iniziative" dal basso, semi sparsi in un campo incolto che disperdono investimenti senza mai diventare un raccolto. Si inseguono piccoli guadagni di produttività quando la vera partita è ridisegnare intere funzioni aziendali, come fanno le aziende di successo che allocano oltre l'80% dei loro fondi AI proprio a questo scopo.
E qui emerge un segreto, quasi controintuitivo, svelato dal Principio 10-20-70 del Boston Consulting Group. Il successo di un progetto AI dipende solo per il 10% dall'algoritmo, per il 20% dalla tecnologia di supporto e per un monumentale 70% dalle persone e dai processi. Ecco il vero campo di battaglia. Circa il 70% delle trasformazioni digitali fallisce non per un bug nel codice, ma per una inadeguata gestione del cambiamento umano. Focalizzarsi solo sulla scelta del motore AI – una decisione cruciale che bilancia la potenza pronta all'uso dei modelli proprietari con il controllo totale dell'open-source – o sulla tecnica di personalizzazione – la conoscenza dinamica del RAG contro la competenza specifica del Fine-Tuning – è come ammirare la punta dell'iceberg ignorando la massa sommersa che può affondare la nave.
In questa danza complessa si inserisce l'AI Act europeo, non come un arcigno arbitro, ma come un manuale di istruzioni per costruire fiducia. Le sue regole, basate su una classificazione del rischio, spingono le aziende a creare sistemi robusti, trasparenti e supervisionati dall'uomo. Un obbligo che diventa un'incredibile opportunità: in un mercato diffidente, la fiducia è il più potente dei vantaggi competitivi. E questa nuova realtà ridisegna le competenze. Il World Economic Forum ci avvisa che il 44% delle nostre abilità sarà obsoleto in cinque anni. Ma il paradosso ritorna: più la tecnologia diventa potente, più diventano preziose le competenze intrinsecamente umane. Il pensiero analitico e quello creativo sono le abilità più richieste in assoluto. La GenAI democratizza la capacità tecnica; il valore si sposta sulla nostra facoltà di porre le domande giuste, di valutare criticamente le risposte, di orchestrare la tecnologia con saggezza.
Un mio prozio immaginario, mercante di tessuti, soleva dire: "Non è il telaio a fare il drappo, ma la mano che ne guida i fili".https://www.andreaviliotti.it/post/guida-strategica-ai-trasformare-i-costi-in-vantaggio-competitivo-con-la-genai
Vi è mai capitato di avere tra le mani una mappa del tesoro, di percepire il potenziale immenso nascosto sotto i vostri piedi, ma di ritrovarvi a scavare con un semplice cucchiaino? Questa è la fotografia esatta del mondo aziendale di oggi di fronte all'Intelligenza Artificiale Generativa. Una tecnologia che promette di sbloccare un valore globale che sfiora i 4.4 trilioni di dollari annui, ma che per ora, per la stragrande maggioranza, rimane una promessa. Si è innescato un paradosso quasi beffardo: oltre il 78% delle imprese la sta già usando, ma più dell'80% di queste ammette di non vederne un ritorno economico tangibile. Come è possibile?
L'errore è considerare la GenAI l'ennesimo software da installare. La verità è che non è uno strumento di automazione, ma un'estensione della mente aziendale, un partner cognitivo. Il problema non è la tecnologia, ma la strategia. In troppe realtà, l'adozione è una fioritura spontanea e caotica di "micro-iniziative" dal basso, semi sparsi in un campo incolto che disperdono investimenti senza mai diventare un raccolto. Si inseguono piccoli guadagni di produttività quando la vera partita è ridisegnare intere funzioni aziendali, come fanno le aziende di successo che allocano oltre l'80% dei loro fondi AI proprio a questo scopo.
E qui emerge un segreto, quasi controintuitivo, svelato dal Principio 10-20-70 del Boston Consulting Group. Il successo di un progetto AI dipende solo per il 10% dall'algoritmo, per il 20% dalla tecnologia di supporto e per un monumentale 70% dalle persone e dai processi. Ecco il vero campo di battaglia. Circa il 70% delle trasformazioni digitali fallisce non per un bug nel codice, ma per una inadeguata gestione del cambiamento umano. Focalizzarsi solo sulla scelta del motore AI – una decisione cruciale che bilancia la potenza pronta all'uso dei modelli proprietari con il controllo totale dell'open-source – o sulla tecnica di personalizzazione – la conoscenza dinamica del RAG contro la competenza specifica del Fine-Tuning – è come ammirare la punta dell'iceberg ignorando la massa sommersa che può affondare la nave.
In questa danza complessa si inserisce l'AI Act europeo, non come un arcigno arbitro, ma come un manuale di istruzioni per costruire fiducia. Le sue regole, basate su una classificazione del rischio, spingono le aziende a creare sistemi robusti, trasparenti e supervisionati dall'uomo. Un obbligo che diventa un'incredibile opportunità: in un mercato diffidente, la fiducia è il più potente dei vantaggi competitivi. E questa nuova realtà ridisegna le competenze. Il World Economic Forum ci avvisa che il 44% delle nostre abilità sarà obsoleto in cinque anni. Ma il paradosso ritorna: più la tecnologia diventa potente, più diventano preziose le competenze intrinsecamente umane. Il pensiero analitico e quello creativo sono le abilità più richieste in assoluto. La GenAI democratizza la capacità tecnica; il valore si sposta sulla nostra facoltà di porre le domande giuste, di valutare criticamente le risposte, di orchestrare la tecnologia con saggezza.
Un mio prozio immaginario, mercante di tessuti, soleva dire: "Non è il telaio a fare il drappo, ma la mano che ne guida i fili".https://www.andreaviliotti.it/post/guida-strategica-ai-trasformare-i-costi-in-vantaggio-competitivo-con-la-genai