Era un carusu dannificu, un ragazzino che attirava guai come un parafulmine. Eppure Vincenzo Nibali, da Messina, è diventato uno dei più grandi ciclisti della storia. Oggi, a due anni dal ritiro, racconta la sua vita con lucidità e onestà brutale: le sassate contro una vetrata pericolante, le cassette delle lettere fatte esplodere con i petardi, un motorino lanciato contro un muro. «Mancava solo una passante per farla grossa», dice, senza cercare sconti.
È cresciuto tra strade complicate e scelte ancora più difficili, ma deve tutto — lo ripete più volte — a due cose: suo padre e la bicicletta.
Nato nel 1984, oggi Nibali è l’unico italiano ad aver vinto tutti e tre i grandi Giri (due volte il Giro d’Italia, una la Vuelta e il Tour) e due Classiche Monumento. Ha lasciato un segno indelebile, ma il cammino non è stato lineare. «Messina non era una città mafiosa», ricorda, «ma negli anni Novanta c’era chi andava a scuola con la pistola nello zaino. Dopo aver letto della sparatoria di Monreale ho capito quanto fosse sottile il confine tra due destini opposti».
Anche la sua famiglia conobbe l’intimidazione: pizzini minacciosi, una bottiglia di benzina dietro la serranda della cartoleria, la casa messa a soqquadro. «Ma i miei hanno sempre tenuto la schiena dritta. Non si sono mai piegati».
La bici entrò nella sua vita a dodici anni, come una fuga in salita: prima verso il santuario di Dinnammare, poi Novara di Sicilia, l’Etna. «Mi piaceva l’oggetto, il viaggio, la vittoria», dice. Le domeniche partivano con l’ammiraglia della Cicli Molonia, e ogni volta che il traghetto approdava a Villa San Giovanni, il signor Molonia diceva: “’Rrivammu in Italia”. E loro ridevano.
A 15 anni, dopo aver vinto una corsa a Siena, decise di non tornare più. «Amo la Sicilia, ma non ho mai provato nostalgia. Non ero un tipo affettuoso, il distacco mi venne naturale».
I genitori gli lasciarono una frase che lo avrebbe guidato per sempre: “Se ti obbligano a scelte sbagliate, torna. Qui troverai noi e un lavoro.” Parole che divennero una rotta sicura, soprattutto negli anni difficili segnati dal doping. «Quelle parole mi salvarono. Il ragazzino dannificu era svanito».
A Mastromarco, in Toscana, la vita non fu semplice: sveglia all’alba, scuola a Empoli, allenamenti infiniti. Ma lì trovò chi credette in lui: Carlo Franceschi, Bruno Malucchi. «Molti siciliani provarono, ma sono rimasto solo io».
Per Nibali, tornare al Sud non è un fallimento — lo è solo se lo fai da sconfitto. «Chi riesce viene celebrato, chi rientra a testa bassa viene guardato con disprezzo: “Chissà cosa voleva fare…”».
All’inizio della carriera arrivarono anche le batoste: ultimo alla Liegi-Bastogne-Liegi. Ma servì. Al Giro d’Italia passò da terzo (2010), a secondo (2011), fino al trionfo del 2013. Eppure, anche nella vittoria, Nibali non si esaltava. «Vincere mi sembrava normale. Forse ho vissuto sempre col freno a mano tirato. Tranne quando pedalavo».
Si riconosceva in una frase di Leonardo Sciascia: “Credo nei siciliani che parlano poco, che si rodono dentro e soffrono.” «Io ero così. In bolla. Non parlavo neanche sotto tortura. Pensavo solo alla bici».
Il Tour del 2014 fu il suo apice. Ma anche l’inizio di un periodo soffocante: «Fama, pressioni, richieste continue. Volevamo sparire. Solo dopo il ritiro ho cominciato a vivere davvero».
Ha perso una Liegi per colpa di un corridore dopato, e alla Vuelta rischiò lo stesso. «Quanto ho perso per il doping? Tanto, probabilmente. Ma non ho mai pensato di farlo. Mi hanno controllato milioni di volte. Possono farlo anche tra cent’anni».
Due anni passati sul Teide, in ritiro, con compagni che sono diventati fratelli. «Lì si diventava un corpo solo. Bastava uno sguardo per capirsi».
Nel 2016 perse un oro olimpico in una curva dissestata. «Colpa mia. Ho rischiato per andare più forte. Succede».
Oggi viaggia. A marzo ha portato le figlie, Emma e Miriam, a conoscere la Sicilia: Cefalù, Piazza Armerina, la Valle dei Templi. «Siamo passati anche dal Museo Regionale di Messina. Emma mi ha chiesto: “Cosa c’è qui?” Le ho risposto: “C’è Antonello. Un gigante dell’arte.” Vedere Messina attraverso Antonello o i boschi dei Peloritani... ti fa capire che è davvero u megghiu postu nto munnu.»
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