L’ipocrisia, ci racconta don Paolo Alliata, è anzitutto un grave peso sulle spalle, dice Dante. Il poeta immagina che gli ipocriti siano, nell’ottavo cerchio dell’Inferno, sottoposti alla punizione di una pesante cappa di piombo, che essi portano come i monaci del glorioso monastero di Cluny in Borgogna: ampie cocolle dalle larghe e lunghe maniche, e grandi cappucci da poterci nascondere lo sguardo. “Gente dipinta”, dice Dante: non è chiaro se in viso, come quelli che si trascoloran le fattezze per fingere di essere impegnati nell’estenuazione del digiuno (anche Gesù ironizza su questi qui), o se il riferimento è alle cappe, che fuori sono dorate e scintillanti, e dentro sono piombo che impaccia ogni passo. A confronto di quelle, gli strumenti di tortura di Federico II di Svevia eran leggere come erba secca.
L’ipocrita – dice Dante – è impegnato in vita a trascinare il peso sfiancante di una continua ricerca dello sguardo altrui, della elaborazione di una strategia per accattivarsi chi ha di fronte e condurlo dove vuole. È il gravame dell’inganno accarezzato, che succhia le energie e impedisce il libero cammino.