Buongiorno, io sono Roberto e questo è “Indizi di futuro” il podcast che indaga il presente per immaginare come sarà il domani. Ogni giorno alcune notizie apparse sui principali quotidiani, si trasformano in una scintilla che accende un faro sul divenire della nostra società.
Il New York Times fu fondato nel 1851, ha la sua sede nell’omonima città, ma è letto in quasi tutto il mondo. E’ il quotidiano che nella classifica mondiale risulta al diciottesimo posto, e il terzo negli Stati Uniti, insomma carta pregiata.
Vanta il maggior numero di premi Pulitzer: 130.
Bene ora prendiamo in esame un altro attore della nostra storia, il lookism.
E’ David Brooks a mettere in campo la questione, proprio dalla colonne del New York Times.
Gli studi parlano chiaro, i brutti sono discriminati, e con dovizia di prove il giornalista mette sotto gli occhi del mondo un fatto: essere brutti è uno svantaggio.
Non che questo ci stupisce, credo fosse chiaro a tutti che un bell’aspetto è d’aiuto in mille circostanze.
Pensate a un colloquio di lavoro, alle probabilità di avere migliori relazioni.
Se poi assieme alla bellezza, c’è la capacità di usarla, allora l’arma è letale.
Il giornalista ne quantifica gli effetti, e sostiene che una persona meno attraente abbia una perdita economica importante nella propria vita proprio a causa della mancanza di bellezza, e la monetizza intorno ai 250000 Dollari. Numeri che impressionano, ma quello che veramente impressiona è un altro aspetto, sono i risvolti dell’inclusione, perché credo tutto nasca da lì, dal fatto che iniziamo ad accorgerci delle discriminazioni, delle ingiustizie, come se d’un tratto un mondo che era perfetto, ora non lo fosse più. Con il mio metro e settanta avrei fatto molta fatica a diventare un buon giocatore di pallacanestro, o almeno consentitemi di affermare che sarei partito con un notevole svantaggio.
Avrei potuto chiedere a quelli alti due metri, per giustizia, di usare una mano sola, o indossare qualche ostacolo alla mobilità, tale da restituire il vantaggio che la sorte gli ha dato.
In questo caso è interessante il gioco del golf, dove attraverso un handicap viene consentito a giocatori di capacità diverse di affrontarsi quasi alla pari, ovvero chi è meno bravo parte avvantaggiato. Democratico? Forse, ma il premio a chi si è impegnato, o a chi è dotato? Uniformare, portare tutti allo stesso piano, significa elevare tutti o abbassare tutti?
E’ giusto porre dei vincoli a chi ha determinate qualità per renderlo uguale agli altri?
Ho tante domande, e poche risposte. Come sempre.
Oltretutto vogliamo avere tutti le stesse opportunità, gli stessi diritti, ma vogliamo essere speciali, unici.
Il che è molto difficile.
Negli ultimi anni c’è stata un’ondata di diritti che sono divenuti di moda, vendette da parte di chi ha subito ingiustizie, quindi David Brooks, il giornalista che ha scritto l’articolo, ha scelto una non qualità dal mazzo delle tante e l’ha messo sulle pagine di un amplificatore come il New York Times.
Peccato che il mio podcast non abbia questa risonanza, a tal proposito consigliatelo agli amici, perché potrei dire che anche quelli intelligenti hanno dei vantaggi, come quelli che nascono ricchi, quelli che nascono in una nazione rispetto a un altra.
Insomma vorrei dire che la giustizia è lontana, e forse neppure raggiungibile.
Questo non vuol dire che non si possa ogni giorno fare un passo avanti.
Il lookism deve essere considerato una presa di coscienza, e la cultura la reale discriminazione, perché stabilisce il bello e il brutto, il desiderabile e il meno desiderabile.
In una cultura hippie forse il denaro non è un gran valore, mentre in un sistema capitalistico lo è.
Bene allora smettiamo di prendercela gli uni con gli altri per una diversa tonalità di pelle, orientamento sessuale, di genere, o un kg in più o in meno, e costruiamo insieme una cultura inclusiva e basata su valori profondi.
Come si fa?
Basta che ognuno faccia la sua piccola parte.
Un passo per volta.