“Slumdog millionaire”. In India si definisce così qualcuno che arrivando dai bassifondi – i cosiddetti “slums”, le aree più povere del paese – riesce comunque a farsi strada nella vita. Due parole che possono sembrare dispregiative. E forse lo sono, o almeno in principio lo erano. Ma a ben guardare sono anche una specie di spoiler, perché contengono l’inizio e la fine della storia che stiamo per raccontare. “Slumdog”, in italiano, può essere tradotto come “cane dei bassifondi”. “Millionaire” ovviamente vuol dire “milionario”. Il punto di partenza e l’arrivo, il primo passo e l’ultimo di un lungo percorso a ostacoli. Una definizione che sembra scritta apposta per Kalpana Saroj, la prima imprenditrice di sesso femminile di cui l’India abbia memoria.
L’abbiamo già detto. “Slumdog millionare” è un ossimoro, un complimento per certi versi degradante che racchiude le molte, forse troppe contraddizioni insite nella cultura indiana. Per capire perché basta raccontare la storia di Kalpana Saroj, nata da genitori dalit in un piccolo villaggio nel Maharashtra. In sanscrito “dalit” significa “oppresso”.
Una persona ai margini, reietta, all’ultimo gradino del tradizionale sistema di caste. Specialmente in passato, i dalit subivano gravi discriminazioni sociali e molti di loro non potevano studiare né lavorare. Vivevano in condizioni al limite. Le bambine erano considerate un peso per la famiglia, tant’è che lo zio materno di Kalpana la soprannominava “piccola sacca di veleno”. E tuttavia il padre, nonostante le pesanti critiche dei parenti, decide di iscriverla nell’unica scuola del villaggio. Lei si dimostra fin da subito ricettiva, molto intelligente, ma le discriminazioni degli insegnanti non le permettono di coltivare il suo talento. Anche i genitori degli altri bambini ci mettono del loro. Non vedono di buon occhio che i figli giochino con una dalit e per questo li sgridano e la tagliano fuori.
Ad appena dodici anni, Kalpana abbandona la scuola e si sposa. Il matrimonio combinato fra adolescenti, d’altronde, era una pratica piuttosto diffusa, e lei senza batter ciglio si trasferisce a Mumbai col nuovo marito e i suoceri. Vivono tutti insieme in una baraccopoli. Kalpana non è niente di più che una cameriera a costo zero. Cucina, pulisce e lava i vestiti. Viene maltrattata dal marito perché il cibo è troppo salato o troppo poco. Picchiata perché il pavimento non è abbastanza limpido, i vestiti non stirati alla perfezione. E così finisce in un tunnel che la porta a non mangiare più, a lasciarsi morire lentamente.
Finché un giorno il padre non va a trovarla a Mumbai, sei mesi dopo il matrimonio, e quasi non la riconosce. Appena capisce cosa sta accadendo, decide di riportarla con sé al villaggio, salvandola da una relazione violenta che a breve l’avrebbe uccisa. Non si tratta di una decisione facile. Per una ragazza sposata, tornare a casa dai genitori è quasi inaccettabile. Le donne anziane del villaggio le consigliano di perdonare il marito, per loro è meglio morire da sposate piuttosto che ripresentarsi nubili. E invece Kalpana vorrebbe riprendere gli studi, diventare una persona migliore, ma la società non glielo permette. Un giorno beve tre bottiglie di pesticidi e prova definitivamente a togliersi la vita.
In pochi sanno che – a livello globale – i morti suicidi sono più numerosi di quelli causati da guerre, omicidi e catastrofi naturali messi assieme. Dovremmo temere noi stessi più di quanto temiamo gli altri? Forse sì. Almeno in campo statistico, è più probabile che ci uccidiamo noi anziché essere uccisi. Eppure Kalpana non ci riesce. I famigliari la soccorrono in tempo e la portano in ospedale e il tentativo di suicidio, per fortuna, cambia completamente il suo approccio nei confronti della vita. Capisce che non può lasciare questo mondo come una perdente. Non si arrenderà finché non riuscirà a diventare qualcuno.
Per farl