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La Natura morta nel Seicento. Seconda parte


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La Natura morta è un genere pittorico nato nel Cinquecento e sviluppatosi con grande successo nel corso del XVII secolo. Ebbe straordinaria fortuna non solo in Italia, dove trovò in Caravaggio un sostenitore convinto e un vero caposcuola, ma in tutta l’Europa. Le nature morte fiamminghe, olandesi, spagnole e tedesche sono di rara bellezza. Non di rado, questo genere si prestò a sollecitare, in chiave allegorica, riflessioni sulla caducità della vita e sull’incombenza della Morte, che vanifica ogni ambizione e velleità.

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Caravaggio, Canestra di frutta, 1599. Olio su tela, 47 x 62 cm. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.
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Bruegel, la Natura morta fiamminga

Nelle Fiandre, Jan Bruegel il Vecchio (1568-1625), detto anche dei Velluti per la finezza esecutiva dei dettagli, fu un prolifico autore di nature morte e paesaggi. Soggiornò a lungo in Italia negli anni Novanta del Cinquecento, e in particolare a Milano, stringendo rapporti con gli altri artisti lombardi del tardo Rinascimento. Bruegel è considerato un altro antesignano della Natura morta propriamente intesa. Dipinse quadri di fiori con la competenza di un botanico, ricercatissimi dai collezionisti e come tali costosissimi; in alcuni suoi dipinti con mazzi di fiori recisi si possono contare oltre 100 specie diverse.

Jan Bruegel il Vecchio, Mazzo di fiori, dopo il 1607. Olio su tavola, 125 x 96 cm. Monaco, Alte Pinakothek.
Claesz, la Natura morta olandese

In Olanda, nel XVII secolo, le Nature morte mirarono a esprimere l’amore per l’intimità familiare: quello stesso che connotava così profondamente la società borghese del tempo. In questo paese il genere della natura morta ebbe grandissima fortuna; a partire dagli anni Venti alcuni pittori di Haarlem, tra cui Pieter Claesz (1596/98-1661), divennero autentici specialisti nella rappresentazione di tavole apparecchiate.

Pieter Claesz, Natura morta con bicchiere di vino e coppa d’argento, 1635. Olio su tela. Berlino, Gemäldegalerie.
Pieter Claesz, Natura morta con bicchiere di vino e coppa d’argento, 1635. Particolare.
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Pieter Claesz, Natura morta con bicchiere di vino e coppa d’argento, 1635. Particolare.

Bisogna infatti ribadire che ogni pittore di Nature morte tendeva a specializzarsi, diventando pittore di fiori o di pesci o di tavole apparecchiate. La sua arte aveva un carattere eminentemente imprenditoriale e tendeva ad evitare intellettualismi che potevano renderla troppo difficile e impopolare. Egli operava per «rendere riconoscibile, con sorta di firma, il proprio prodotto», orientava la propria attenzione «su un universo di oggetti a lui vicini, che possono essere contenuti nel ristretto ambito dello studio. La Natura morta sembra allora essere una sorta di autocelebrazione della propria capacità replicativa, nell’ordine della meraviglia, nel sentimento barocco dell’inganno e dello stupore» (A.Veca).

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Claesz, per esempio, era specializzato in “banchetti” e “piccole colazioni”, ossia nella raffigurazione di tavole imbandite. Produsse molte opere di grande fascino e suggestione, nelle quali il virtuosismo realistico (apprezzabile nella trasparenza dei bicchieri, nella lucentezza del vasellame d’argento, nei riflessi, di un realismo spettacolare) si accompagna a un taglio assai semplificato delle composizioni.

Spesso, le stoviglie abbandonate su un buffet sembrano testimoniare la conclusione di un festeggiamento: forse un’allusione alla caducità della vita. Gli oggetti, com’è facile verificare, sono in genere gli stessi, segno che il pittore li possedeva e li combinava di volta in volta in modo differente, sul tavolo davanti al suo cavalletto, per creare nuove combinazioni.

Pieter Claesz, Natura morta, 1635. Olio su tavola, 88 x 113 cm. Amsterdam, Rijksmuseum.
Pieter Claesz, Natura morta con granchio, 1644. Olio su tela. Strasburgo, Musée des beaux-arts.
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Pieter Claesz, Natura morta con timballo di more, 1645. Olio su tavola, 54 x 82 cm. Dresda, Staatliche Kunstsammlung.
Zurbaran, la Natura morta spagnola

In Spagna furono prodotti i cosiddetti bodegones, piccoli quadri che raffigurano ortaggi o comuni oggetti di terracotta, disposti entro semplici scaffali o in modesti ambienti domestici. Con il termine spagnolo bodegon, infatti, si usa indicare uno specifico genere di Natura morta ambientata in cucina, con tutti gli elementi ad essa connessi: selvaggina morta, pesci, dolci ma soprattutto brocche, piatti e bicchieri.

Maestro del genere fu Francisco de Zurbarán (1598-1664), tra i maggiori pittori spagnoli del XVII secolo. Autore anche di pittura sacra, fu attivo fra l’inizio del terzo decennio e l’anno della sua morte. Sensibile al linguaggio caravaggesco, elaborò un linguaggio pittorico piuttosto arcaicizzante, dove i personaggi, immobili e quasi stilizzati, vengono illuminati da una luce ferma e tagliente, carica di profondi significati spirituali.

Francisco de Zurbarán, Natura morta con limoni, arance e una rosa, 1633. Olio su tela, 62,2 x 107 cm. Pasadena, Museo Norton Simon.

Le Nature morte di Zurbarán sono considerate dagli storici dell’arte capolavori del proprio genere e tra le più belle e suggestive del Seicento. L’artista spagnolo rifuggì dalle composizioni complesse e dalla ostentazione di virtuosismo proprie dei suoi colleghi europei. Privilegiò infatti composizioni semplici, a volte perfino essenziali, con pochi oggetti allineati in primo piano, disposti in modo regolare e separati gli uni dagli altri.

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In una celebre opera conservata al Prado, si distribuiscono, da sinistra, un bicchiere posato su di un piattino di metallo, due vasi, uno in porcellana bianca e l’altro in terracotta, e infine una brocchetta con due manici posata su un altro piattino metallico. Il ripiano di appoggio è spesso e corre parallelo al bordo inferiore del dipinto. Il fondo è scuro.

Francisco de Zurbarán, Natura morta, 1650, olio su tela, 46 x 84 cm. Madrid, Museo del Prado.

In un’altra sua Natura morta, ancora più essenziale, gli oggetti quotidiani, così isolati e inquadrati a brevissima distanza, assumono un’intensità mistica. Su un tavolo, una tazza in ceramica dai manici deliziosamente curvi, colma d’acqua, è appoggiata su un piatto d’argento sul cui bordo si posa una rosa senza spine in piena fioritura. Si colgono, in questo prezioso dipinto della National Gallery, significati religiosi che i devoti spettatori spagnoli del diciassettesimo secolo non faticavano a riconoscere. Il calice d’acqua pura e la rosa senza spine rimandano, infatti, alla Vergine Maria e alla sua Immacolata Concezione.

Francisco de Zurbarán, Tazza con rosa e piatto, 1630 ca. Olio su tela, 21,2 x 30,1 cm. Londra, National Gallery.
Simboli religiosi nelle nature morte

Il cibo che i pittori dipingevano costituiva la gioia della tavola dei ricchi; la rappresentazione del morbido, del lucido o del brillante si faceva elogio dei beni artificiali. È indubbio, infatti, che il grande successo della Natura morta vada in parte attribuito alla cultura borghese dell’accumulo e dell’ostentazione. Tuttavia, è spesso possibile riscontrare un qualche significato simbolico all’interno nelle Nature morte, soprattutto in quelle con le tavole apparecchiate, che possono nel loro insieme configurarsi come vere e proprie allegorie.

Un grappolo d’uva, ad esempio, allude al vino e di conseguenza al sangue di Cristo; il pane è il corpo di Cristo e come il vino è un simbolo eucaristico; la mela ricorda il peccato originale e rimanda alla figura della Madonna, che non ne fu macchiata; il limone è simbolo di salvezza; una noce aperta richiama il Cristo crocifisso (il mallo sarebbe la carne, il guscio la croce e il gheriglio alluderebbe alla natura divina di Gesù, fonte di vita), il formaggio, tipico cibo del digiuno, è associato alla Quaresima. Un esempio emblematico è costituito dalla celebre Natura morta del pittore tedesco Georg Flegel (1566-1638), dipinta nel 1635, allegoria dell’incessante lotta fra il Bene (Cristo) rappresentato dal pesce e il Male (Satana) mostrato sotto forma di coleottero.

Georg Flegel, Natura morta con pane e aringa, 1635. Olio su tela, 24 x 36 cm. Colonia, Wallraf-Richartz Museum.
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Vanitas e memento mori

La Vanitas è un particolare genere di natura morta, assai diffuso nel Seicento soprattutto in Olanda, caratterizzato dalla presenza di elementi dal chiaro intento simbolico (teschi, clessidre, candele consumate dalla fiamma, frutti ammaccati, fiori appassiti) che rimandano ai temi del trascorrere del tempo e della caducità della vita e della bellezza: in altre parole, si tratta di allegorie della Morte.

Barthel (Bartholomäus) Bruyn, Vanitas, 1524. Olio su tavola, 61 x 51 cm. Otterlo, Kröller-Müller Museum.
Simon Renard De Saint-Andre, Vanitas, XVII sec. Olio su tela, 47 x 38 cm. Marsiglia, Museo di Belle Arti.
Pieter Claesz, Vanitas, 1625. Olio su tela, 29,5 x 34,5 cm. Haarlem (Paesi Bassi), Frans Hals Museum.

Il termine Vanitas deriva dal latino vanus, che letteralmente vuol dire “vuoto”, “caduco”. Lo scopo di queste inquietanti Nature morte non era evidentemente decorativo. Esse dovevano spingere a riflettere sulla precarietà dell’esistenza e sulla natura effimera dei beni mondani, il cui valore è reso vano dal trascorrere inesorabile del tempo che tutto consuma. Esse sono quindi esortazioni al memento mori, letteralmente, “ricordati che devi morire” e quindi comportati di conseguenza. «Vanitas vanitatum, et omnia vanitas» (dal latino, “vanità delle vanità, e tutte le cose vanità”): così recita il libro biblico dell’Ecclesiaste (1, 2; ripetute poi in 12, 8). Queste parole sono speso riportate nei dipinti per ribadire la vanità dei beni terreni e la stupidità di coloro che si affannano ad accumularli.

Pieter Claesz, Vanitas, 1630 ca. Olio su tela, 39,5 x 56 cm. L’Aia, Mauritshuis.

Una celebre Natura morta del pittore belga Philippe de Champaigne (1602-1674) presenta, in maniera più che esplicita, al centro un teschio, simbolo della morte, e ai lati un tulipano in un vaso, che avvizzisce rapidamente richiamando la fragilità umana, e la clessidra, la quale simboleggia lo scorrere inesorabile del tempo.

Philippe de Champaigne, Natura morta con teschio (Conosciuto anche come Vanitas con tulipano, teschio e clessidra), 1671. Olio su pannello, 28 x 37 cm. Le Mans (Francia), Musée de Tessé.
Antonio de Pereda

Vi sono dipinti, come quelli dello spagnolo Antonio de Pereda (1608-1678), che offrono interessanti variazioni sul tema della vanitas. In due celebri allegorie della vanità, quella di Vienna e quella (più tarda) degli Uffizi, ritroviamo tutti i simboli che alludono al tema: i teschi, la candela spenta, la clessidra, i fiori recisi, le carte da gioco, i soldi, i gioielli, le armi. Il mappamondo ricorda che i vasti imperi terreni sono destinati a svanire nel tempo, laddove solo il regno divino durerà in eterno, come, nella Vanitas degli Uffizi, ricorda il grande dipinto raffigurante il Giudizio Universale, svelato da un drappo sullo sfondo.

Antonio de Pereda, Allegoria della Vanità, 1636. Olio su tela, 174 x 139 cm. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
Antonio de Pereda, Allegoria della Vanità, 1670 ca. Olio su tela, 152 x 173 cm. Firenze, Uffizi.

Ne Il sogno del Cavaliere, un giovane nobile dorme seduto su una poltroncina, con il viso pallidissimo appoggiato ad una mano: una evidente allusione alla morte che incombe. Egli sogna la gloria, la ricchezza, le vanità di questo mondo, simboleggiate dagli oggetti sparsi sul tavolo che una figura angelica gli sta mostrando: gioielli, denaro, armi, la corona per il potere temporale e la mitra per quello spirituale. A questi sono tuttavia affiancati altri simboli, che rimandano alla caducità di ogni cosa: i teschi, la candela spenta, la maschera simbolo dell’effimero, i fiori che appassiscono rapidamente.

Antonio de Pereda, Il sogno del Cavaliere, 1640 ca. Olio su tela, 1,52 x 2,17 m. Madrid, Real Academia de San Fernando.

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