Care lettrici, cari lettori,
in modo per me del tutto inatteso, e con emozione, torno nel gruppo editoriale in cui ho lavorato per ventidue anni, a dirigere il giornale in cui ne ho trascorsi tredici, cinque dei quali da vicedirettore. Rientrare nello storico palazzo di via del Tritone e ritrovare la redazione appassionata e competente che ho lasciato dodici anni fa, irrobustita da tanti giovani talenti, è un’emozione che mette i brividi e, insieme, dà l’energia necessaria a una sfida tanto grande. Per la fiducia che ha voluto concedermi, devo un grazie non rituale all’Editore, Francesco Gaetano Caltagirone, e all’amministratore delegato, Azzurra Caltagirone.
Questo progetto ha una premessa. Accade a Roma, città cruciale nel cammino della civiltà. Qui l’esperimento della democrazia ateniese si fa diritto, organizzazione pubblica che si legittima e si regola con la ragione. Qui la rivoluzione cristiana si fa vita dello spirito, ma anche egemonia e potere temporale. E ancora qui, nei paraggi simbolici di questo punto cardinale della storia umana, la laicità e il cristianesimo, misurandosi lungo i secoli e non senza conflitto, costruiscono ciò che chiamiamo Occidente e le sue tre virtù spirituali: la tolleranza, la solidarietà e l’universalismo.
Per questi motivi Roma merita più di ciò che ha. Prima di tutto nel suo racconto, poiché la difficoltà di tenere insieme tanta ricchezza induce spesso a ridurla a una semplificazione infedele. Poi nel suo rapporto con la comunità che rappresenta: rispetto alle altre capitali delle grandi democrazie liberali, sconta un inspiegabile divario di autonomia e poteri, cui corrisponde un inaudito ritardo nelle infrastrutture e nella modernizzazione. Promuovere Roma per quanto vale, e per ciò a cui aspira, sarà la prima preoccupazione di questo giornale.
La mia nuova avventura inizia in un tempo di transizione. L’Italia si rimette in moto dopo un decennio che ha visto per due volte la sospensione della fisiologia parlamentare, sostituita da governi tecnici. Ma è ancora un Paese dove si parla più di quanto si fa. L’eccesso di parola ha due forme: la politicizzazione, per cui tutto si declina in politica; e la polarizzazione, per cui il reale, e da tempo anche il virtuale, si raccontano in bianco o in nero, quasi che lo schierarsi da una parte o dall’altra servisse, prima di ogni altra cosa, a definirsi. C’è chi dice che la nostra identità civile, ciò che ci fa sentire italiani, è fragile e si fonda sulla contrapposizione. Prima tra fascismo e antifascismo, poi tra monarchia e repubblica, quindi tra destra e sinistra, e così via fino ai conflitti dei giorni nostri, che ai vecchi si richiamano. Comunque vada, il mondo cambia e noi continuiamo a usare parole inattuali o usurate, e a dividerci.
La politica è onnivora. Fa suo ogni aspetto della vita dei cittadini e lo racconta nella forma binaria dei talk televisivi. È l’effetto di ciò che Giuseppe De Rita ha definito il virus dell’opinione, un microbo che scolla le idee dai saperi in cui nascono e si stratificano, e le rimonta in un puzzle che ciascuno costruisce a modo suo. Così la storia, ritagliata à la page, diventa disinvolta fonte di autolegittimazione e di disconoscimento dell’avversario. Così, ancora, si discute del conflitto tra arabi e israeliani, o tra russi e ucraini, come se si trattasse di scegliere tra due canzoni di Sanremo. Dietro l’illusione di una libertà di pensiero aperta a tutti, il virus dell’opinione fa una democrazia senza qualità.
Questo è il terzo aspetto della questione. Lo chiamerei populismo metodologico. È un ammalarsi della coerenza, per cui qualunque opinione viene espressa e rivendicata anche in contrapposizione con quelle a cui è logicamente connessa. Così, per fare solo alcuni esempi, il pacifismo si sposa con l’intolleranza, la cultura dei diritti con lo strizzar d’occhio ai regimi che negano ogni libertà, il garantismo con il giustizialismo.
Non accade per caso. Nell’ultimo decennio i movimenti antisistema hanno assediato la democrazia europea e hanno atterrato quella italiana. Qui sono arrivati a Palazzo, hanno mostrato tutta la loro inadeguatezza e hanno tradito la promessa di inverare una sovranità orizzontale e diretta. Ma, come molte ideologie e pseudoideologie che sopravvivono al loro fallimento storico, il populismo si è spalmato nel senso comune. Tanto dei cittadini, quanto delle classi dirigenti. L’Italia è un Paese dove il discorso pubblico è malato. La crisi delle parole accompagna e spiega il declino, nello scarto tra il dire e il fare, nell’incapacità di selezionare i migliori e metterli alla guida dei processi più decisivi, nella tentazione irresponsabile di usare il sospetto per demolire l’avversario.
Eppure da due anni quello stesso Paese incattivito, e sostanzialmente immobile, nel quale le riforme slittano e, se si fanno, risultano irrilevanti, è tornato a muoversi, come già era accaduto nel biennio 2015-2016. Il pil ora cresce più della media europea, lo spread e l’inflazione calano, l’occupazione stabile aumenta, gli investimenti e l’export trainano la ripresa, la società dà segni di risveglio. Sono sintomi di reazione e di vitalità in un sistema economico e civile pure afflitto da un’emorragia demografica cronica, frenato da burocrazie, tecnocrazie e magistrature eccedenti, ostaggio di minoranze corporative, illuso troppe volte da rivoluzioni a salve. Perché l’inversione di tendenza diventi svolta servono visione riformatrice, stabilità politica, solido ancoraggio internazionale. E una retorica pubblica capace di costruire consenso attorno al cambiamento e al prezzo per sostenerlo, piuttosto che attorno alla distribuzione di rendite e privilegi.
Nell’attuale assetto bipolare della politica non ci sono alternative al governo in carica, in grado di soddisfare le condizioni qui esposte. Per l’inconciliabilità di programmi e linguaggi, l’opposizione è ancora lontana dal rappresentare un’opzione competitiva. Ma questa non è, da sola, una ragione sufficiente per considerare già vinta la sfida di Giorgia Meloni e della maggioranza che la sostiene. Per portare a compimento le tante riforme di cui il Paese ha bisogno, una su tutte quella della giustizia, servono coraggio e costanza. Vuol dire dare continuità al processo trasformativo avviato, spingere sulla leva dell’innovazione, almeno fino al punto in cui i giovani che questo Paese accoglie saranno più di quelli che da questo Paese scappano. Accontentarsi vorrebbe dire rinunciare. Valuteremo ciò che accadrà con lo spirito critico e l’indipendenza che il Messaggero coltiva da sempre come virtù fondamentali.
Scrivo mentre la guerra continua a seminare morte dentro i confini geografici e simbolici della nostra civiltà. Maturare la coscienza dei tempi che viviamo vuol dire tornare a sentirsi occidentali, senza iattanza ma anche senza sensi di colpa, e tenere per buona la pregiudiziale liberale che distingue nettamente tra aggredito e aggressore, su cui si fondano la cultura del diritto e la pace. Questa distinzione non verrà mai meno su queste pagine, assieme all’appello a fare nel modo giusto quello spicchio di Europa che manca. Vuol dire costruire una difesa comune, mettendo a sistema gli investimenti dei singoli Stati. Vuol dire, ancora, emettere debito per gestire le tre transizioni in atto - demografica, digitale e energetica - accantonando l’ambientalismo ideologico e i veti sulle nuove frontiere della ricerca. Vuol dire, infine, prendersi cura dei cosiddetti perdenti.
Tuttavia non basta fare l’Europa perché Putin smetta di essere un fattore di destabilizzazione e di minaccia per tutti, o perché il Medioriente ritrovi una tregua credibile e un percorso di riconciliazione e convivenza. Nelle condizioni date, diventare protagonisti può voler dire, almeno in un primo momento, dover rischiare di più e assumere responsabilità supplementari. Molti potrebbero non volere che l’Europa esista per davvero e che esprima in atto ciò che è già in potenza, cioè il concentrato più grande di forza militare, politica, economica e civile del mondo. Questo primato comporta più doveri che diritti. La nostra coscienza cosmopolita non mancherà di ricordarlo nel momento in cui si tratterà di assumerli.
Care lettrici, cari lettori, scrivo dal cuore della Capitale, in un punto di osservazione straordinario. Da qui la transizione globale e quella che impegna l’Italia si vedono correre l’una a fianco all’altra, intersecandosi. Un giornale critico, immedesimato ma indipendente, che non sta pregiudizialmente con nessuno, non deve tagliarle con l’accetta, ma raccontarle nella loro complessità, con il rispetto e l’amore che si devono alle parole, tornando a coltivarne la densità storica e l’esattezza scientifica, con il metodo del dubbio e della verifica. Il lessico della verità è ragionevole misura delle cose. Sta qui il senso più profondo dell’impegno che assumo. Ai colleghi con cui lo condivido va un grazie sincero, per il sostegno, gli interrogativi e le critiche che, sono certo, mi aiuteranno a fare meno errori. A Massimo Martinelli, da cui ricevo un Messaggero autorevole e vitale nell’edizione di carta, e all’avanguardia su tutte le piattaforme digitali, vanno i complimenti e l’augurio per tutto ciò che desidera e merita.