L’America è sotto attacco. Non conosce né il nemico che la sta colpendo, né l’arma che utilizza. Ma vede continuamente crescere il numero dei caduti: oltre duecento diplomatici statunitensi in tutto il mondo soffrono già per la misteriosa “sindrome dell’Avana”. Le ultime vittime sono state rivelate dal Wall Street Journal: un dipendente dell’ambasciata di Parigi e tre del consolato di Ginevra, che si aggiungono a una lunga lista. I primi casi vennero segnalati a Cuba nel 2016, poi ne sono stati riscontrati ovunque: Cina, Russia, Uzbekistan, Stati Uniti, Colombia. Oltre al personale del Dipartimento di Stato, anche agenti della Cia si sono ritrovati con lo stesso malore: ricordano solo “un suono pulsante e una sensazione di pressione nella testa”. Gli episodi più inquietanti sono avvenuti a Washington: addirittura uno nel 2020 è stato registrato nel giardino della Casa Bianca. Identici i sintomi: nausea, giramenti di testa, disturbi del sonno e della memoria e persino “danni cerebrali permanenti”.
“Non sappiamo cosa sia accaduto e chi ne sia responsabile”, ha dichiarato il segretario di Stato, Antony Blinken: “Tutta l’amministrazione federale è impegnata ad arrivare fino in fondo”. C’è una sola certezza: si tratta di un attacco mirato. Lo ha messo nero su bianco il professor James Giordano, uno dei luminari incaricati dell’inchiesta: “È intenzionale, è stato diretto contro gli obiettivi: sembra la prova sul campo di qualche genere di neuro-arma”.
Siamo davanti a una dimensione sconvolgente: apparati destinati a pilotare “il cuore e la mente” delle persone. Il desiderio supremo di qualsiasi tiranno: uno strumento in grado di annichilire la volontà dei singoli. E non si tratta delle ricerche di laboratorio di uno scienziato pazzo, ma di sistemi operativi creati da una grande potenza. Senza che gli Stati Uniti riescano a capirci nulla mentre qualcuno dei loro nemici dispone di un congegno o di una sostanza che penetra nella testa per cercare di condizionare pensieri e opere.
L’allarme per i neuroweapons è altissimo. Nella scorsa primavera il Pentagono ha messo in allerta le truppe schierate in Siria, Afghanistan e in diversi Paesi sudamericani. Qualche spiraglio su questo enigma oggi si può ricavare dal saggio scritto da un pool di militari ed esperti di guerra psicologica, guidati dal colonnello John Crisafulli, un veterano dei Berretti Verdi titolare della cattedra di “forze speciali” all’Accademia dell’Us Navy. Questi incursori mandati in prima linea in tutti i continenti, infatti, sono quelli che temono di più di finire sotto il tiro delle neuro-armi.
Come nel caso dei conflitti cyber, i nuovi ordigni possono avere finalità difensive o offensive. Nel primo caso, gettano in uno stato di confusione o di depressione chi vuole attaccarti: realizzano una sorta di “cupola protettiva”, che blocca o rallenta gli aggressori. Nel secondo, si può teoricamente arrivare a una portata strategica: un’arma di massa in grado di “manipolare la situazione politica e sociale in una nazione fino a destabilizzare l’avversario”.
Il vero dilemma è individuare di che armi si tratta. Il pool del colonnello Crisafulli ricorda i test del passato, dai piani della Cia negli anni Sessanta per impadronirsi della volontà con l’uso di droghe e di ipnosi – come nella parodia del film L’uomo che fissa le capre interpretato da George Clooney – agli studi sovietici e cinesi sul “lavaggio del cervello”. Approcci primordiali rispetto alle potenzialità offerte oggi dallo sviluppo delle neurotecnologie. Un campo percorso pure dagli Stati Uniti, con finanziamenti per oltre un miliardo di dollari concessi dalla presidenza Obama. L’obiettivo di queste innovazioni negli Usa però – stando alle informazioni disponibili – è destinato soprattutto a potenziare le capacità umane, migliorando concentrazione, memoria, rapidità di decisione.
“Nel futuro i comandanti potranno non solo monitorare ma anche controllare le...