Il podcast di don Andres Bergamini

Omelia Cristo Re anno C S. Andrea


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Quando ascoltiamo il titolo “Gesù, re dell’universo”, sentiamo che potrebbe diventare qualcosa di astratto, quasi distante dalla nostra vita. Le letture della festa elencano grandezze e potenze che sembrano portarci lontano: Gesù come principio, primizia, al centro di ogni cosa. È un inno splendido, ma può far pensare a un re che abita solo nell’altezza.

Invece, guardando il mondo, sperimento ben altri regni: poteri che schiacciano, guerre, violenze sui poveri, mancanza di rispetto per la vita e per la dignità dei piccoli. Davanti a tutto questo mi chiedo: come posso celebrare un re che sembra così distante? Il Vangelo di Luca, proprio raccontando la crocifissione, mi aiuta a dare concretezza a questa domanda.

Un Re deriso e impotente

Nella scena della croce Gesù appare come un re che tutti deridono. Lo insultano, lo scherniscono, lo umiliano. La sua è la forma più radicale dell’impotenza: non reagisce, non scende dalla croce, non oppone resistenza al potere degli uomini che si accaniscono contro di lui. I capi, i soldati, il potere politico e religioso: tutti hanno esercitato la loro forza su di lui e sembrano aver vinto.

Le loro parole sono sempre le stesse: “Salva te stesso”. Come se la grandezza fosse misurabile solo dal potere di sfuggire alla sofferenza. Perfino la scritta sul capo, “re dei giudei”, mostra il paradosso: il potere umano si ritiene forte perché decide della vita e della morte.

Mi vengono in mente i bambini del catechismo, quando parlavamo di Erode: un uomo che, minacciato da un bambino re, scatena la paura più feroce, quella che uccide gli innocenti. È il volto del potere umano: dominare attraverso la morte. Un volto che riconosco anche nei nostri dibattiti sulla morte programmata, come se l’ultima parola sulla vita fosse nostra.

Eppure Gesù accetta di stare dentro questo meccanismo senza fuggire. Rimane, affronta il potere e lo smaschera non opponendo violenza a violenza, ma scegliendo la via dell’amore.

La croce come incontro

Il perdono come chiave

Pochi istanti prima di essere inchiodato, Gesù dice: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Sente che chi lo sta uccidendo non ha piena coscienza di ciò che accade. E già questo mi sorprende: nel momento del massimo dolore, pensa al perdono.

Non è solo: i due malfattori

La cosa che più mi colpisce è che Gesù non muore da solo. Accanto a lui ci sono due malfattori. Immagino i loro sguardi durante la salita al Calvario, la condivisione della paura e della sofferenza. Forse hanno persino ascoltato le sue parole di perdono.

In quel momento, la croce diventa per Gesù una grande occasione di incontro. Non solo ha salvato molti lungo il suo cammino, ora sceglie di morire insieme a due persone che portano dentro colpe vere. E proprio quella vicinanza fa scattare qualcosa nel cuore del ladrone che la tradizione chiama Disma.

La scoperta del ladrone

Questo uomo riconosce l’innocenza di Gesù e, nel riconoscerla, capisce che la sua presenza accanto a lui non è casuale. Si sente visto, conosciuto. Sente che quel Gesù sta condividendo con lui l’ultimo tratto della vita.

Le sue parole sono un’invocazione ripetuta: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Non chiede un miracolo, non pretende di scendere dalla croce. Accetta che moriranno insieme. Ma vuole essere ricordato. “Di me”, ripete. Con il suo volto, la sua storia, la sua colpa.

Ed è significativo che lo chiami per nome: è l’unica volta nel Vangelo di Luca in cui qualcuno dice semplicemente “Gesù”. Quel nome significa “Dio salva”: forse il ladrone lo sta invocando senza nemmeno saperlo pienamente.

La forza dell’“oggi”

La promessa immediata

La risposta di Gesù è tra le più sconvolgenti di tutto il Vangelo: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”.

Questo “oggi” è decisivo. Nel Vangelo di Luca ogni “oggi” annuncia una salvezza immediata: ai pastori di Betlemme, a Zaccheo, e ora al ladrone. Non è una promessa rimandata al futuro lontano. È un dono che inizia lì, nella sofferenza condivisa, nel morire insieme.

Oggi sarai con me. E in un certo senso lo è già. Gesù lo porta con sé, lo tiene accanto, gli apre uno spazio nella sua relazione d’amore col Padre.

Un Re che vuole relazione

La vicinanza agli ultimi

Gesù mostra di essere un re che cerca relazione. Non domina, non guadagna potere, ma si avvicina a chi è considerato perduto, malfattore, ultimo. È un re che sceglie di stare con chi non ha più nulla da offrire.

Un regno condiviso

Trasferiti nel suo regno

San Paolo lo dice con un’immagine bellissima: il Padre ci ha liberati dal potere delle tenebri e ci ha trasferiti nel regno del Figlio. È un regno che comincia già ora. Non è un luogo lontano, ma una condizione di vita in cui Gesù ci fa entrare attraverso la sua croce.

In questo regno sperimento perdono, riconciliazione, accoglienza. Mi sento parte di qualcosa che non mi spetterebbe, eppure mi viene donato perché lui ha scelto di scendere fino alla morte con noi.

Un re con molti re

La sua è una regalità che si moltiplica. Non è un re solitario: vuole farci re con lui. Come Davide nella prima lettura, anche Gesù può dirci: “Siamo ossa delle tue ossa e carne della tua carne”. Con lui condividiamo luce, forza, amore, morte e risurrezione.

Celebrare la nostra partecipazione

Alla fine, celebrare Cristo Re significa celebrare la nostra partecipazione alla sua vita: la sua vicinanza, la sua scelta di condividere tutto, la sua capacità di trasformare la morte in un luogo di comunione.

E io voglio ringraziarlo per questo. Perché oggi — davvero oggi — mi trasferisce nel suo regno.
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Il podcast di don Andres BergaminiBy Andres Bergamini