“È inutile servire Dio.” Con questa frase dura e provocatoria si apre la denuncia del profeta Malachia contro il popolo d’Israele. È un’accusa che nasce dal cuore di una fede ferita, stanca, delusa: “Abbiamo camminato nel lutto, abbiamo osservato i comandamenti, ma cosa ci abbiamo guadagnato?”. Gli israeliti, interpellati da Malachia, esprimono una protesta profonda: vedono i superbi prosperare, i malvagi restare impuniti, mentre chi serve il Signore sembra non ricevere nulla in cambio. È una ribellione silenziosa, ma reale, che capovolge completamente il pensiero di Dio — un Dio che invece invita a umiltà, fiducia e servizio.
Il profeta Malachia, l’ultimo dei profeti minori — e quindi colui che chiude il lungo cammino profetico della Bibbia prima del Vangelo di Matteo — raccoglie questa contestazione, che suona come un grido di sfiducia: “A che serve credere?”. Ma proprio qui si rivela la sua grandezza: Malachia non si limita a condannare, ma mostra un Dio che ascolta, un Dio che resta attento anche quando l’uomo si ribella.
Il Signore ascolta chi lo teme
Nel racconto, mentre alcuni parlano contro Dio con arroganza, altri — definiti “i timorati di Dio” — si parlano tra loro. È un momento di grande dolcezza spirituale: non gridano, non si ribellano, ma si confidano l’un l’altro con timore e rispetto verso il Signore. E Dio, dice il testo, “porse l’orecchio e li ascoltò”.
È un’immagine meravigliosa: il Signore che si china per ascoltare, che non dimentica nulla di chi gli è fedele. Per loro “scrive un libro di memorie”, dove annota tutto il bene compiuto, ogni gesto di amore e di fedeltà. Sono i suoi tesori preziosi, la sua “proprietà particolare”. Chi appartiene a Dio non è mai dimenticato: anche se attraversa prove e oscurità, resta custodito. È un messaggio di tenerezza e di speranza, perché mostra un Dio che non solo vede, ma ricorda, che non è distratto né lontano.
Il fuoco che purifica e il “sole di giustizia”
Il profeta annuncia poi un evento decisivo: “arriverà un fuoco”. Ma non è un fuoco di distruzione — è un fuoco che purifica, che brucia la menzogna e fa emergere la verità. L’immagine si apre poi su una visione di luce: un “sole di giustizia” che sorge e “porta guarigione nelle sue ali”.
Il testo ebraico sottolinea proprio questo movimento: il sole che guarisce, che dà forza per camminare. È una luce che scalda, consola, incoraggia, fa riprendere il volo. E come non pensare a Cristo? Gesù stesso, nel Benedictus, è chiamato “sole che sorge dall’alto”. Egli è la luce che vince le tenebre, che guarisce ogni ferita, che illumina la notte dell’uomo.
Il giudizio di Dio, dunque, non è una condanna ma un atto di amore: un sole benefico che risana. Cristo, entrando nel buio della morte, nella croce e nell’abbandono, ha trasformato quella notte in aurora. Nessuno può più dire: “Dio mi ha abbandonato”, “è inutile servire Dio”. In Gesù, ogni disperazione trova una via d’uscita, ogni oscurità un raggio di luce. Nulla va perduto: anche ciò che sembra inutile o fallito è raccolto dal suo sguardo d’amore.
Vivere nell’attesa dell’alba
La nostra vita, come quella dei “timorati di Dio”, è una vita di attesa: attendiamo l’alba, il sorgere del sole che è Cristo. Anche nelle difficoltà, nelle notti del dolore o della paura, siamo chiamati a rinnovare la fede, a dire con convinzione: “Non è inutile servire il Signore”.
Ogni Eucaristia è già un raggio di quell’alba: nel pane spezzato e nel vino versato riceviamo i segni concreti della salvezza, la presenza viva del Sole di giustizia.
Oggi la Chiesa di Gerusalemme ricorda sant’Abramo, il padre nella fede, colui che “sperò contro ogni speranza”. È l’esempio di chi, pur non vedendo compiute le promesse, ha continuato a credere. Così anche noi, nel tempo della prova, siamo chiamati a conversare tra noi nel Vangelo, a sostenerci nella Parola, a restare uniti nell’attesa dello Sposo che viene.
Viviamo nella notte, ma la notte non è eterna: presto sorgerà il sole. E nulla, davvero nulla, di ciò che viviamo con amore, andrà perduto.