Le storie della storia - Fondazione di Roma
di Umberto Broccoli
Leggende 21 aprile del 753 a.C. Tradizionalmente è la data della fondazione di Roma. Ricordate? Romolo e Remo vedono avvoltoi volare sul cielo del Lazio dell’VIII secolo a.C.. Sei ne vede Remo sull’Aventino, mentre a Romolo se ne presentano dodici sul Palatino. Qui sorgerà Roma. È il volere degli dei. Tutto questo si immaginava fosse frutto di leggenda e fantasia e come tale confluito anche nell’arte dei secoli successivi. Nei Musei Capitolini di Roma è un quadro famosissimo e particolarmente apprezzato dai visitatori (FOTO). Siamo tra 1615 e 1616 e Pieter Paul Rubens, artista fiammingo, è in Italia, tappa obbligata per ogni uomo di cultura dell’epoca. E, in particolare, Rubens è a Roma dove è circondato dalla storia. I ruderi raccontano le vicende di Roma antica e –parallelamente - quel mondo rivive anche nella riscoperta degli autori antichi. Così, rileggendo riti e miti, l’arte prova a ricostruire paesaggi e situazioni, nell’ illusione di rivivere quell’età dell’oro perduta definitivamente. L’architettura recupera le forme, pittura e scultura raccontano fatti e leggende di Roma Antica. Rubens dipinge il mito della fondazione, con tutte le leggende annesse e connesse: Romolo e Remo, gemelli e figli della colpa e della trasgressione di Rea Silvia, vestale. Lei, Rea Silvia avrebbe dovuto evitare ogni rapporto sessuale con chicchessia, proprio perché vestale e consacrata alla divinità. Una sorta di suora ante litteram, perché il voto di castità è presente da sempre e in quasi tutte le religioni di sempre. Rea Silvia, probabilmente, non vorrebbe trasgredire, ma di lei si invaghisce il dio Marte in persona e al dio non si può resistere. Rea (nomen omen: significa colpevole) resta incinta e partorirà i due gemelli Romolo e Remo. La favola prosegue. Amulio, zio di Rea, la fa seppellire viva poiché questa era la pena per le vestali sorprese a togliersi di dosso le vesti a favore di qualche amante. Il suo corpo è gettato nell’ Aniene, ma il fiume impietosito la resuscita: potenza. Mentre alla corrente del Tevere, sono abbandonati Romolo e Remo. In quel mondo di leggenda anche i fiumi sono divini. Per cui il Tevere straripa all’ altezza del Velabro, tra Palatino e Campidoglio, in un luogo chiamato Cermalus, lasciando i gemelli sotto un fico e là trovati prima da una lupa e poi ritrovati da Faustolo, un pastore in giro da quelle parti. Un mondo fantastico e affascinante, inevitabilmente finito sulle tele dei quadri nonché nei tentativi di ricostruire quel paesaggio nelle architetture e nelle ville dei nobili del Rinascimento e del Barocco. Pietro da Cortona sogna la scena e ne riproduce i contenuti (FOTO): Faustolo, sua moglie Acca Larenzia e i gemelli salvati dalla lupa e adottati dalla famiglia nuova. Il resto è storia nota. Romolo e Remo crescono e a loro sarà affidato il compito di creare una città nuova, discendente indiretta di Enea, il profugo troiano. Siamo tornati così agli avvoltoi visti dai gemelli qualche tempo prima del 753 a.C.. La spunta Romolo: con un aratro traccerà il solco primigenio, per definire il perimetro della città nuova. E guai a superarlo, pena la morte. Remo troverà qui la sua fine: non rispetta l’ordine del fratello e sarà fratricidio. A Bologna, in Palazzo Magnani, Annibale, Agostino e Ludovico Carracci raccontano tutto questo (FOTO). Paradossi della storia: Roma, città della fratellanza, nasce da una guerra fratricida.
Leggende? Leggende ben raccontate, si è detto per secoli: Romolo, Remo, il Palatino del 753 a.C. Poi, alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso, gli archeologi hanno trovato i resti di alcune capanne (FOTO), proprio là sul Palatino, accanto al Tempio della Magna Mater. In realtà si tratta di fori scavati nel tufo, probabilmente destinati a sostenere i pali di almeno tre capanne, perfettamente ricostruibili (FOTO): pianta ovale con uno o due pali al centro per sostenere il tetto. Le pareti semplici: paglia e fango e all’interno, al centro, il focolare. Siamo attorno alla metà dell’VIII secolo a.C., conferma indiretta della tradizione leggendaria: Roma è stata fondata il 21 aprile del 753 a.C. durante la festa delle Palilie Allora, anche noi ricostruiamo non sapendo dipingere. Et focus, et porci, et fumosa palilia foeno. Parola di Aulo Persio Flacco, poeta e scrittore dell’età di Nerone. Così ricordava il 21 aprile: con poche parole, ma sufficientemente chiare per immaginare cosa accadesse a Roma in quel 21 aprile di qualche millennio fa: animali in libertà, fieno bruciato, una festa. Una festa della natura e della campagna. Una festa consacrata a Pales, divinità della fecondazione delle greggi e degli armenti. Già, Pales. Noi siamo abituati alla religione romana costruita su Giove, Giunone, Minerva. Vediamo Marte in armi, Mercurio alato, Venere seduttrice, secondo i racconti della mitologia ufficiale. Pales, legata alla campagna, sembra figlia di un dio minore. Ma siamo proprio sicuri? Pales, la divinità del 21 aprile, è garante della vita quotidiana della Roma delle origini. Roma nasce città di pastori e Pales sorvegliava sull’ andamento buono delle giornate. Il 21 aprile i pastori uscivano all’ alba e ornavano di alloro l’ingresso dell’ovile. Le bestie stavano là dentro, quasi stupefatte di quanto vedevano. Alloro sulla porta, gesti strani e antichissimi. Gli uomini, con ramoscelli in mano, schizzavano di acqua gli animali: per i pastori era una purificazione, sperando nella benevolenza di Pales per la quotidianità. Intorno, nella campagna, covoni di fieno a bruciare, assieme allo zolfo, al rosmarino, alle altre erbe. E tutto risapeva di fumo: et fumosa palilia foeno, le palilie fumose di fieno. Nascosta dal fumo, si immaginava la presenza di Pales. Il pastore guardava ad oriente, là dove il sole nasce e si rivolgeva a Pales: non si vedeva, ma c’era. Allora le offrivano doni, come ogni 21 aprile: focacce, sorgo, latte nel secchio usato tutti i giorni per la mungitura. “Pales, Pales, Pales!”. Per tre volte si evocava il nome. Non rispondeva nessuno, se non qualche belato. E, fra i pastori, qualcuno immaginava la voce di Pales riconosciuta proprio nel belato di una pecora: “Sì è lei! E si ci parla così”, dicevano i vecchi, superando l’incredulità dei più giovani. Il sole è alto sui colli di Roma. La primavera è iniziata, le greggi sono nelle vallate: bisogna festeggiare ancora. Come? Mangiando. Il popolo della campagna festeggia così, perché il problema è la fame e spesso si mangia bene solo durante le feste. Un vento leggero porta in giro i belati delle pecore. 21 aprile, fa quasi caldo, il pane è stato sfornato da poco. Arrivano le donne con la burranica, latte e mosto. “Ma quanto è bella la figlia di Lucio!…è passato un anno e non è ancora promessa a nessuno!”. Fra i belati delle pecore, questi i pensieri sussurrati dei pastori, eccitati dall’ arrivo del cibo e delle donne. I pensieri corrono: oltre al mangiare, si può sperare di ottenere anche qualche altra soddisfazione per il corpo. Ora si canta, ora ci si accompagna con strumenti improvvisati, ora si preparano fuochi di paglia per la sera (… et fumosa palilia foeno…), perché, verso sera, i pastori faranno a gara per saltare attraverso il fuoco. Una esibizione di coraggio, rivolta soprattutto alle donne. Sembra di sentirle parlare piano: “Un anno fa Marco era riuscito a saltare tre covoni infuocati… tutte noi lo guardavamo e ognuna di noi lo avrebbe voluto per sé. Poi è andato a combattere e non è più tornato”. Davanti al fuoco i racconti sfilano via veloci e confusi: come il fumo, come le parole tenute insieme dal vino. Come la voglia sempre più forte di vedere chiudere bene questa giornata, tra corpo e spirito. Un ragazzo chiede: “Perché saltare la paglia infuocata?”. “Perché così si ricorda il solco di Romolo, la fondazione di Roma!”, risponde un vecchio presente a oltre settanta feste di Pales. È stanco e ricorda. Ricorda quando Roma era più piccola e le case erano tutte di fango e paglia. Ora le case sono di legno e mattoni, ma i ragazzi non sanno perché si salta la paglia infuocata. Ricorda la bellezza della mamma di Lucio, bella anche quando portava il cesto del latte: sulla testa, con un cercine e un velo a proteggere i capelli. Era sinuosa e si era promessa a Lars, pastore discendente dagli etruschi, perduto in guerra, la solita guerra. Da allora, si asteneva dal sesso come una vestale, senza esserlo. Lars le aveva lasciato Lucio, concepito la sera del 21 aprile, dopo i salti nella paglia infuocata, dopo i canti, i balli, il vino, la burranica. Il vecchio continuava a guardare le greggi e a sentire la voce di Pales nei belati: sempre simili e sempre differenti da quelli dell’anno precedente. E, stanco, non distingueva tanti altri 21 aprile davanti ai suoi occhi. 21 aprile 2023, duemilasettecentosettantasei anni dopo. Niente più greggi, niente più alloro, niente più fieno e burranica. Niente sogni sinuosi nel segno di Pales, niente pastori a saltare paglia infuocata. Resta la festa, restano le Storie, resta la storia.