Share The Beat Goes On
Share to email
Share to Facebook
Share to X
By Ivano Bison e Alessandro Mapelli
The podcast currently has 11 episodes available.
Non avevamo ancora superata la boa della metà degli anni ’60.
Allora imperversavano gruppi di giovani che danzavano sull’onda del rock and roll. Si ballava sempre in coppia, a volte schierati in riga,sia chiaro, nulla a che vedere con i balli di gruppo, imperversanti nelle balere per anziani.
Spesso ci capitava di andare al Jolly Club di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, dopo una settimana passata nei locali di altre periferie, quali il Dancing e il Circolino di Cusano Milanino o il Pino di Nova Mialanese, per non parlare del più famoso Santa Tecla in centro città. Il Jolly era gestito da un avveduto impresario (manager si direbbe adesso) che selezionava sia i cantanti, i gruppi musicali e i ballerini.
Si chiamava Nando Nandi, un cinesellese che si era formato attraverso la gavetta dell’avanspettacolo per poi mettersi in proprio. Dotato di indubbio acume scuotistico, nelle sue sale non si andava solo per ballare ma anche per assistere a miniconcerti di gruppi emergenti o (appunto) vedere le speciali coreografie degli speciali danzatori di Rock and Roll.
E fu in quel locale sestese che m’accorsi de I Messaggeri. Allora erano il gruppo di base. Suonavano al pomeriggio e alla sera ed il repertorio doveva variare a seconda dei clienti, articolando e adattandolo ai diversi orari. Perciò chi si avventurava su quel palco doveva saper maneggiare tutto lo scibile che informava il ballabile del tempo. Il beat al pomeriggio e le musiche “varie” dalle 21 in poi.
Volendo posare da raffinato potrei regalarvi una dotta relazione sul movimento dadaista venuto alla ribalta nel secondo decennio del ‘900.
Ma è troppo il bene che vi voglio e utilizzerò, a pretesto, queste amenità per parlare di un gruppo beat che si chiamava New Dada. E solo di loro, lo prometto.
Orbene, non so se i fondatori del complesso musicale volessero fare riferimento alle tendenze estetiche di mezzo secolo prima o se intendessero riproporre tutti quegli elementi di rottura antibellicista, tipici del dadaismo nato in Svizzera.
Semmai lo avessero ipotizzato, dai lavori musicali che seguirono nulla lo farebbe pensare, dato che non vi sarà traccia alcuna. Infatti, i New Dada, nascono nel periodo del beat anche se si piccavano di non essere propriamente un gruppo beat. Cercavano soluzioni e come accadeva per tutti gli altri, coverizzandosi di tutto punto, verso temi rhythm and blues.
I New Dada, non ebbero una vita lunga ma negli anni che andavano dal 1965 al 1967 riscossero un successo ragguardevole.
Nei primissimi anni ’60, suonare con Clem Sacco, con Ghigo o con Riz Samaritano, rappresentava molto di più che una palestra. Erano officine dove gli apprendisti del rock and roll nostrano mostravano venature che poi sarebbero diventate il cardine del “genere” definito “demenziale” della cui patologia saranno afflitti solo coloro che lo etichettavano in questo modo, senza coglierne la genialità.
Tra i musicisti che accompagnavano questi giocosi personaggi c’erano tre degli elementi che andranno a comporre il complesso beat di cui parleremo in questa puntata, ovvero: I Giganti.
Enrico Maria Papes suonava la batteria, Mino De Martino la chitarra e Francesco “Checco” Marsella le tastiere. Per un po’ di tempo ruotarono attorno alla produzione dal vivo dei complessi con l’etichetta del Clan. Sporadiche le apparizioni a fianco dei Ribelli, di Gino Santercole e di Guidone.
A Papes, Marsella e De Martino si aggiunse, al basso, il fratello di quest’ultimo, Sergio. Eccoli pronti per andare per loro conto e cominciare a suonare, mettendo nel mirino la voglia di raggiungere il successo, abbandonando il ruolo di comprimari. La necessità di distinguersi dalle altre band li convinse che il beat poteva trovare sponde migliori se contaminato da sonorità più sofisticate. Abbandonarono le denominazioni precedenti cancellando diciture come “Gli Amici” o “The Ghenga’s Friend”. Da allora si chiamarono solo e unicamente I Giganti.
Non so se i vostri genitori, mi rivolgo ai più giovani, vi hanno spiegato come si sono conosciuti e quando si sono innamorati. Può darsi che qualcuno lo abbia fatto. C’è da riferire che non sempre quegli incontri finivano con i fiori d’arancio. Spesso, molto spesso, duravano poco. Forse una stagione o poco più.
Fatto sta che il gruppo beat di cui oggi raccontiamo la storia qualcosa ha apportato nella definizione di rapporto tra i ragazzi e le ragazze degli anni ’60. Ne hanno tracciato uno spaccato di semplice, dozzinale, efficace, analisi sociale.
Vi sto parlando de I Corvi. Complesso beat proveniente da Parma, che con una hit folgorante descrisse le situazioni di cui sopra.
Il testo parlava di un rapporto tra una specie di teddy boy con una ragazza dall’elevata estrazione sociale. Piacevano a tutti le storie contrastate, sempre con l’amore imperituro a trionfare.
“Ragazzo di Strada” rompeva questi schemi.
“Sei di un altro modo, hai tutto quello che vuoi, conosco quanto vale una ragazza come te, Io sono un poco di buono…sono un ragazzo di strada…"
Se i sobri cittadini di Novellara, nel 1963, avessero coltivato il sospetto che tra quei giovanotti che si aggiravano in piazza, c’era un tizio che sarebbe diventato un’icona della musica moderna italiana, adesso avremmo da che pescare sull’entusiastica memorialistica di tutti. Sentiremmo i prevosti, le beghine, i farmacisti, i medici condotti e i brigadieri del paese, pronti a partecipare alla serie “…io lo conoscevo bene…”
Viceversa, gli esponenti delle suddette categorie si limitavano a dare fondo alle disapprovazioni sul modo di vestire e sui suoi capelli lunghi.
Lui, quello con la criniera al vento, si chiamava Augusto Daolio.
Un ragazzotto, alto e robusto,nato nel 1947 e poco incline restare seduto sui banchi di scuola. Non per mancanza d’interesse agli studi ma per naturale irrefrenabile voglia di estraniarsi dal mondo delle convezioni.
I Nomadi, dopo varie alternanze di musicisti si consolidarono nella formazione composta da Augusto Daolio, voce; Beppe Carletti, tastiere; Franco Midili, chitarre; Gianni Coron al basso; Bila Capellini, alla batteria.
Una volta si diceva che fosse ottima cosa “avere dei santi in paradiso”.
È da tempi lontani che una bella lettera del parroco, più di ogni altolocata segnalazione, ti permetteva una presentazione meno anonima nei confronti di altre persone. Il parroco segnava così un’altra tacca, sommandola ai suoi già molteplici poteri, attribuitigli dalla tonaca e dal fatto che spesso veniva riconosciuto come una (se non l’unica) autorità credibile all’interno di una comunità.
Lo so, vi starete chiedendo cosa c’entri tutto ciò in una rubrica che si occupa di una minima porzione di storia musicale, perlopiù dedicata la beat.
La risposta sta nel sottolineare come la dea bendata, (nel mondo dello spettacolo la buona sorte è un fattore assai importante)… la fortuna dicevo, abbia avuto un ruolo per dischiudere ai Dik Dik le porte del magico mondo della musica italiana.
Poiché è dei Dik Dik, i protagonisti in questo episodio di The Beat Goes On, che tracceremo alcune note diciamo subito che: se sono arrivati ai vertici delle classifiche e vi sono restati a lungo, questo (invece) è in assoluto, merito loro.
Se voi pensaste che per mettere insieme gli accordi di “Una bambolina che fa non no” non fossero necessari tempo e preparazione… bene, io vi dico che il vostro sarebbe un pensiero oltremodo oltraggioso. Per la musica, intendo. Fuorvianti potrebbero apparire i passaggi nell’intro, ma badate che la musica non si fa e non si suona con le chiacchiere. Comincio questo nostro episodio per parlarvi della canzone appena citata poiché intendo dedicarlo ai “Quelli”.
Franz Di Cioccio, batteria; Franco Mussida, chitarra e voce; Flavio Premoli, tastiere; Alberto Radius, chitarra e voce; Pino Favaloro, chitarre e voce; e i due bassisti, Toni Gesualdi, per il primo periodo e poi Giorgio Piazza fino allo scioglimento del gruppo. All’inizio faceva parte del complesso anche (tra il ’66 e il ’67) Teo Teocoli, con il ruolo di cantante.
Siamo nel 1963.
Un giovane cantante cercava la propria strada e di farsi largo costituendo un gruppo musicale. Lui si chiamava Enrico “Ricky” Maiocchi. Milanese, nato nel 1940, passò l’adolescenza a fare vari lavori, tra i quali quello di muratore ma la passione per la musica andava oltre ogni ostacolo, fino a condurlo in Gran Bretagna dove affilò la propria tecnica. Un viaggio formativo per molti rockettari italiani e anche Little Tony racconta della sua felice avventura d’Oltremanica. Tornato in patria si associò prima alla formazione di Memo Remigi per poi formare il gruppo che si chiamerà “I Camaleonti” non prima di aver sperimentato qualche altro nome: non so vi dicono qualcosa denominazioni come Beatnicks o Mods.
I Camaleonti divennero, rapidamente, una realtà nel nostro panorama. Oltre a Maiocchi, la formazione originale si concretò con l’arrivo di Tonino Cripezzi alle tastiere; Gerry Manzoli, al basso e chitarre; il batterista Paolo de Ceglie e Livio Macchia, anch’egli chitarrista e all’occorrenza bassista.
Come avevamo promesso eccoci a raccontare di uno dei gruppi beat italiani più quotati, o per meglio dire, quello in assoluto di maggior successo negli anni compresi tra il 1964 e il 1969.
Il loro nome: Equipe 84.
Come in ogni cosa che tocchi direttamente, la penetri o arrivi solo a sfiorare la sfera artistica, la sua creazione passa da una serie di circostanze a volte imperscrutabili.
The podcast currently has 11 episodes available.