2 NOVEMBRE: COMMEMORAZIONE DEI FEDELI DEFUNTI (ANNO C)
Gb 19,1.23-27; Sal 26; Rm 5,5-11; Gv 6,37-40
UNA LUCE NELLA NOTTE
Spera nel Signore. Sii forte. Il cuore sa la strada.
Ci sono giorni in cui il cuore pesa. Giorni in cui una sedia vuota a tavola, una voce che non si sente più, un nome che non risponde al telefono ci fanno scoprire quanto sia fragile la vita e quanto profonda la nostalgia.
L’esperienza del lutto di una persona cara è un’esperienza che lascia sempre sconvolti. Io non ho perso molti parenti... solo due nonne, una per parte. Quando ero a Santa Croce ho perso due giovani che ho visto crescere in oratorio: Andrea e Francesco, entrambi in un incidente stradale. Uno era appena uscito di casa sua, aveva dato un bacio alla madre ed era uscito per andare a divertirsi; nemmeno 10 minuti dopo, un incidente autonomo con l’auto; forse perché distratto dal telefonino, forse per evitare un animale.
L’altro Francesco, anche lui diciannove anni, tornava a casa da lavoro in moto; un camion ha invaso la sua corsia, ed è finito tutto lì. Nella mia mente li vedo ancora dodicenni, uno mentre prepara i dolci con la madre in oratorio durante un laboratorio di cucina, l’altro, a cui piaceva molto disegnare, mentre insegnava ai bambini come fare un fumetto, in un laboratorio di disegno. Sono lì, cristallizzati, insieme a tanti volti che ho conosciuto e che, come successo a molti di voi. A volte la mancanza è forte come un pugno allo stomaco, il dolore ti prende e non ti lascia più. È allora che ci viene spontaneo fuggire: distrarci, non pensarci, trovare qualcosa da fare per non sentire troppo quel vuoto che ci si apre dentro.
Sperare che in qualche modo, non sappiamo quale, quella sensazione passi. Ecco, la liturgia di oggi ci chiede di disobbedire a questo impulso; non ci invita a fuggire: ci invita a restare davanti al dolore, anche se fa male, ad attraversarlo con gli occhi della fede. Giobbe, che conosce la perdita come pochi, oggi ci consegna una parola che squarcia come un lampo di luce la notte: «Io so che il mio redentore è vivo».
È un grido, non una lezione. È la voce di chi, pur non capendo nulla di ciò che gli accade, decide di non lasciare che la sofferenza sia l’ultima parola. Dentro il dolore, Giobbe sceglie la fiducia. È come se dicesse: “Non so dove sei, Signore, ma so che ci sei.” E quella certezza, anche se piccola, è già resurrezione che comincia. C’è chi, in mezzo al dolore, impara a dire cose simili senza nemmeno saperlo. Come quella figlia che ogni mattina passa dal cimitero per salutare la madre e le racconta della giornata. O quell’uomo che, dopo aver perso il lavoro, continua a dire ai figli: “Non vi preoccupate, qualcosa troveremo.” Sono piccole confessioni di fede, dette a mezza voce, ma che fanno tremare il cielo.
E mentre lo dici, dentro ti nasce un sussurro: “Tu sei la mia luce... Tu sei la mia difesa... Non ho paura.”
Non lo dici perché tutto va bene, ma proprio perché non va bene. Perché hai capito che Dio non è la via di fuga dal dolore, ma la presenza che lo attraversa con te. È come quando ti sembra di camminare nel buio, ma ti accorgi che qualcuno ti tiene la mano: non vedi la strada, ma sai che non sei più solo. San Paolo lo dice con forza: «La speranza non delude.»
Non è la speranza ingenua di chi ripete “andrà tutto bene”, ma quella di chi crede che anche ciò che si spezza può essere raccolto da Dio e rimesso insieme. È la speranza di chi si inginocchia davanti a una tomba e, pur tra le lacrime, sussurra: “Ti rivedrò.” È la speranza di chi viene a Messa e, mentre il pane si spezza, sente che lì, in quel gesto, tutti i mondi si toccano: la terra e il cielo, i vivi e i defunti, le lacrime e la gioia.
Perché ogni volta che il Signore si dona nell’Eucaristia, il confine si assottiglia: chi ci ha preceduti è più vicino di quanto pensiamo, come se il loro nome continuasse a vibrare nel silenzio tra il calice e l’altare. E nel Vangelo Gesù ci dice: «Chiunque crede in me, io lo risusciterò nell’ultimo giorno.»
È la promessa che ogni dolore attraversato con Lui è già un passo dentro la vita eterna. E che nulla, nemmeno la morte, può separare da chi si è amato in Dio. Il cielo non è un luogo lontano, ma la presenza viva di Dio che continua a custodire i nostri nomi, anche quando qui sembrano svanire. È come se ogni persona che abbiamo amato ci dicesse oggi: “Io sono nella luce. Vivi anche tu con quella luce nel cuore.” Forse questo è il segreto della fede: imparare a desiderare ciò che non si vede, a cercare un volto che a volte sembra nascosto. Ma chi lo cerca non resta deluso. Perché ogni volta che diciamo “spera nel Signore”, qualcosa dentro di noi si rinforza, il cuore si rialza, e il dolore resta, ma diventa passaggio.
Allora commemorare i defunti non è ricordare i morti, ma ricordare la Vita. È ricordare che c’è una promessa più grande del dolore, un amore più forte della morte.
E quando ci chiediamo come affrontare la malattia, il fallimento, la perdita, possiamo rispondere come Giobbe, come Paolo, come il discepolo che sta sotto la croce: “Il mio Redentore vive. Io non ho paura. La speranza non delude.” Non fuggire dal dolore, ma attraversalo con queste parole sulle labbra: saranno loro a trasformarlo, a renderlo passaggio, respiro, attesa.
E così, ogni lacrima non sarà sprecata, ma diventerà luce che prepara l’alba del cielo. Perché chi ha amato davvero non è mai perduto: è solo avanti, nella casa dove un giorno ci ritroveremo.