A Gaza l’inverno non chiede permesso: entra, sommerge, sporca tutto. Nelle ultime ore le tende si sono riempite d’acqua, i bambini tirati su per non farli dormire nel fango. Da lontano, i professionisti della negazione mostrano schermate del meteo: «Cielo sereno». Intanto gli operatori umanitari documentano pioggia, allagamenti, tende marce. Non serve un dibattito: basta scegliere a chi credere, a chi c’è dentro o a chi guarda un’app.
Nel frattempo continua la matematica macabra dei corpi. Israele ha identificato i resti di Dror Or, tenuto a Gaza per più di due anni. In cambio ha riconsegnato quindici corpi palestinesi, senza nomi, senza voce. Un rapporto scritto nero su bianco nell’accordo del 10 ottobre: uno a quindici. È questo il listino del dopoguerra che tutti fingono di costruire.
Intorno, la vita reale marcisce sotto la pioggia. L’Egitto rinvia la conferenza sulla ricostruzione perché ricostruire mentre tutto crolla è una barzelletta crudele. Washington prepara l’ennesimo piano: forza internazionale, autorità transitoria, promesse di Stato palestinese buttate come coriandoli. Hamas valuta di trasformarsi in partito per entrare nel grande gioco del “day after”. Fuori, a pochi metri da quelle discussioni, le donne restano chiuse nei rifugi sovraffollati, esposte a violenze che nessun piano nomina.
È uno spettacolo di ipocrisie sovrapposte: si tratta del futuro mentre il presente affoga. Chi parla di “stabilizzazione” dovrebbe guardare l’acqua che sale nelle tende prima di parlare di Stati e governance.
E allora la domanda resta sospesa: quanto vale il presente di Gaza nel racconto del dopoguerra se l’unica cosa che si muove tra le due sponde sono sacchi con resti umani? Finché il mondo discute del domani, gli occhi devono restare sul oggi di Gaza.
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