In questo articolo ho avuto grazie all'Industria delle costruzioni n. 462 Luglio-Agosto la possibilità di esprimere con più compiutezza il mio parere sulla Mostra ancora aperta sino al 23 settembre al Maxxi di Roma sino "Gli architetti di Zevi". Sono molto lieto di dare ai visitatori la notizia che il grande plastico dello SDO rimosso a giugno causa pioggia è stato rimesso in esposizione. Appagante, ma non dissonante, Gli Architetti di Zevi al MAXXI di Roma “No all'architettura della repressione, classicista barocca dialettale. Si all'architettura della libertà, rischiosa antidolatrica creativa”. Questo epitaffio si trova come se niente fosse per il lancio della mostra “Gli architetti di Zevi”, che è quanto di meno zeviano si possa immaginare. Nella frase che avevo a suo tempo estrapolato da Controstoria e storia dell’architettura è condensato il programma di Zevi: un programma fortemente critico e contestativo. Perché per Zevi la negazione era atto fondativo: bisognava sapere prima cosa “non” volere, e solo dopo cosa costruire. Bisognava essere prima “Anti” e solo poi a favore. Questo principio valeva tanto in politica che in Architettura e soprattutto nell’Arte: tutti i grandi innovatori distruggono la visione precedente per crearne una nuova. Zevi si è battuto strenuamente per i suoi NO (al fascismo, alla legge truffa, all’accademia). La mostra del MAXXI invece elimina i contrasti, cauterizza le negazioni: non c’è traccia dei suoi No ad Aldo Rossi, dei suoi No alla Tendenza, allo storicismo post moderno di Bofill o Stern o Portoghesi, a quella che chiama architettura della repressione. Zevi aveva dato prova di cosa può essere una mostra critica e dissonante. Chiamato a 500 anni dalla morte, aveva impostato una mostra su Michelangelo architetto con una combinazione costante tra arte, architettura e interpretazione critica. Accanto a lui Paolo Portoghesi, espunto dalla mostra al MAXXI, con una censura inaccettabile se l’impostazione della mostra pretende di essere di taglio storico, come il catalogo sussiegosamente si presenta. Un catalogo con molti contributi di storici di professione che sono tenuti dai curatori ben alla larga dai veri nodi che la biografia di Zevi presenta: l’addio all’Università, le relazioni con i partiti politici, l’esperienza dell’InArch, le relazioni con gli altri storici il citato Portoghesi e Manfredo Tafuri per menzionare i principali. Se nel catalogo i nodi non sono affrontati, nella mostra al MAXXI non vi è traccia dell’arte come elemento addensante e orientativo del lavoro di Zevi. E la scelta colpisce se si pensa che all’ultimo convegno organizzato da Zevi a Modena del 1997 fu lanciato a partire da una immagine di Burri che non era affatto illustrazione, ma Progetto del convegno che metteva al centro la Paesaggistica come nuova dimensione dell’architettura! Dentro al MAXXI cioè dentro un Museo di Arte e architettura contemporanea, l’installazione della mostra rappresenta un esercizio non certo un’opera. Pensiamo a cosa avrebbe potuto fare la stessa Hadid (perché non affidare allo studio l’installazione?), o Gehry o Eisenman o Mayne oppure in Italia per esempio Piero Sartogo. Ma per MAXXI, se inquadrato storicamente Sartogo va bene (c’è stata una sua mostra tra arte e architettura nel 2014), se invece innesta capacità critica, capacità di fare e progettare, allora niente. Sempre una linea di galleggiamento, sempre puntare alla sufficienza e mai al rischio dell’eccellenza. D'altronde per questa mostra non si poteva veramente avere niente di diverso, dato che la scelta della Fondazione Zevi è stata creare un comitato promotore del centenario composto tutto da personalità estranee, anzi veramente molto lontane da Zevi. Cosi nelle mani di due critici estranei agli aspetti propulsivi, se non dichiaratamente avversi al pensiero zeviano, la mostra si caratterizza con un freno tirato imbarazzante in tutti i suoi aspetti chiave. Innanzitutto cerca di sposta