Stamattina mentre stavo per portare il bambino al nido ho ricevuto una telefonata di mia madre. Riesce sempre a chiamare nei momenti meno opportuni.
«Sono stata sveglia tutta la notte pensando al tuo famoso romanzo. Sai che posso querelarti per danni alla mia immagine?»
Più tardi, intorno alle undici e mezzo, mio fratello Lucas, che di solito è così occupato da non rispondere quasi mai alle mie chiamate, mi ha contattato al cellulare mentre stavo innaffiando le piante moribonde del mio studio.
«La mamma mi ha detto della tua autobiografia.» Dopo una specie di risata ha aggiunto: «Non l’ha letta, ma dice che ti querelerà per diffamazione.»
«Certo che non l’ha letta! Non ho neanche cominciato a scriverla.»
«Non preoccuparti. L’ho calmata dicendole di avere pazienza e di aspettare che ne facciano un film. Non si sa mai, magari diventa ricca.»
Ho appoggiato l’innaffiatoio a terra e ho attaccato il telefono. Per la prima volta in un anno e mezzo mi sono seduta al computer e ho scritto con piacere, decisa a trasformare in realtà quel “famoso romanzo”. Lo finirò anche a costo di ritrovarmi in tribunale o chissà che altro. Sarà un racconto semplice e breve. Non dirò nulla di cui non sia convinta.
Questo libro non è autobiografia, è un romanzo, anzi, un memoir.
Un’autobiografia deve rispettare gli eventi così come sono accaduti, risponde a una logica di verità dei fatti, esige un riscontro oggettivo tra realtà e scrittura. Con il memoir si scrive della propria vita.
Il memoir invece dà voce alla memoria, ai fatti così come li ricordiamo, si affida alle emozioni, non vuole un riscontro certo con ciò che è avvenuto perché ciò che conta è l’emozione che in quel ricordo e in quel brandello di memoria sono incastonati. Con il memoir ci si muove avanti e indietro nel proprio tempo interiore, si ricostruiscono fatti ed episodi non per ciò che realmente sono stati, ma per il significato che hanno avuto nella storia di chi quei fatti e quegli eventi ha vissuto.
Possiamo scrivere un memoir per fare i conti con alcuni tratti della nostra storia, per pacificarci con ciò che abbiamo perduto, per voltare finalmente pagina, per ricostruire la nostra vita, per dare valore e voce a qualcosa di originale e irripetibile, per trasformare ciò che è stato in rinnovata energia vitale.
Possiamo scrivere il nostro memoir per affrontare il passato che ancora ci fa male, curarlo e guarirne.
Gualupe Nettel è nata a Città del Messico nel 1973. Considerata una delle più importanti scrittrici latinoamericane dei nostri giorni è l’autrice de La figlia unica, un romanzo sulla maternità, anzi, sulla natura permeabile della maternità, sulle ragioni della scelta di essere madre o meno in relazione all’adeguamento a aspettative famigliari e sociali. In un’intervista Guadalupe Nettel ha detto di aver iniziato a scrivere Il corpo in cui sono nata, dopo la nascita del suo primo figlio e di averlo terminato dopo la nascita del secondo e che l’esperienza della maternità ha avuto un forte impatto sul tentativo di fare un bilancio della sua infanzia.
Abbiamo scelto questo libro per continuare nel nostro impegno di uscire fuori dagli stereotipi leggendo, abbiamo scelto la sua storia per portare a galla quella matassa di ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza indissolubilmente intrisi di interpretazioni e significati che segnano ancora oggi le nostre vite, ma dei quali forse non sempre abbiamo completa consapevolezza.
Abbiamo scelto il corpo in cui sono nata perché ognuno e ognuna di noi almeno una volta ha percepito il proprio corpo in maniera estranea, non sempre la forma che avremmo desiderato per presentarci e rappresentarci al mondo. Una lotta che, soprattutto, per molte donne dura tutta la vita e spesso lascia ferite e dolori indelebili.
Abbiamo scelto la voce di una donna che decide di scrivere un memoir nella convinzione che la scrittura possa essere riparativa, che le parole abbiano il potere di aggiustare, creare, accomodare quella voce e quel ricordo di ragazza che provava una profonda insoddisfazione riguardo alla scuola e al tedio della sua vita familiare, ma che aveva la nitida sensazione che il mondo fosse più ampio e più emozionante di quanto le fosse permesso vedere dalla piccola fessura alla quale aveva accesso.
Sono nata con un neo bianco, che altri chiamano voglia, sulla cornea dell’occhio destro. Sarebbe stata una cosa del tutto irrilevante se la macchia non si fosse trovata nel bel mezzo dell’iride, cioè proprio sulla pupilla, da dove la luce penetra fino al fondo del cervello. All’epoca i trapianti di cornea sui bambini appena nati non si eseguivano ancora: il neo era condannato a rimanere lì per diversi anni. L’ostruzione della pupilla favorì lo sviluppo graduale di una cataratta, così come un tunnel privo di ventilazione si riempie di muffa. L’unica consolazione che in quel momento i medici poterono dare ai miei genitori fu l’attesa. Di sicuro, quando la loro figlia avesse terminato la fase di crescita, la medicina sarebbe progredita abbastanza da poter offrire la soluzione che allora mancava. Nel frattempo ci sono gli esercizi, fastidiosissimi, per sviluppare, nei limiti del possibile, l’occhio pigro e un cerotto sull’occhio buono. Il cerotto era color carne e copriva il viso dalla parte superiore della palpebra all’inizio dello zigomo. Portare quel cerotto provocava in me una sensazione d’oppressione e di ingiustizia. Con quel cerotto dovevo andare a scuola, riconoscere la maestra i contorni del materiale scolastico, tornare a casa, mangiare e giocare una parte del pomeriggio. Credo ai aver opposto resistenza ogni giorno. Eppure, per ragioni che ancora non capisco, non ho mai tentato di levarmelo.
La scuola date le circostanze, era un luogo ancora più inospitale di quanto tendano a essere le istituzioni di questo genere. Vedevo poco, ma abbastanza da sapermi destreggiare in quel labirinto di corridoi, muri di cinta e giardini. Il problema non era lo spazio, ma gli altri bambini. Sia io che loro sapevamo di essere diversi in molte cose e ci evitavamo a vicenda.
Nella mia scuola non c’erano bambini come me, ma avevo compagni con altri tipo di anomalie. Condividevamo tutti la certezza di non essere uguali agli altri e di conoscere meglio la vita rispetto a quell’orda di ingenui che, nella loro breve esistenza, non avevano ancora affrontato nessuna disgrazia.
Ci sono persone che durante l’infanzia sono costrette a studiare uno strumento musicale o ad allenarsi per le gare di ginnastica, io venivo allenata a vedere con la medesima disciplina che prepara altri a un futuro sportivo.
Peraltro la vista non era l’unica ossessione della mia famiglia. Sembrava che i miei genitori considerassero l’infanzia come una tappa preparatoria durante la quale si devono correggere tutti i difetti di fabbrica con cui si è venuti al mondo. Mia madre affrontò come una sfida personale la correzione della mia postura alla quale si riferiva spesso con metafore animali. «Scarafaggio!» gridava ogni due o tre ore «raddrizza le spalle!», «scarafaggino, è ora di mettere l’atropina.»
Forse la conservazione della specie consiste proprio in questo, nel perpetuare sino all’ultima generazione di esseri umani le nevrosi degli antenati, le ferite che ereditiamo come un secondo corredo genetico.
I comportamenti acquisiti durante l’infanzia ci accompagnano per sempre, e anche se a forza di volontà li teniamo a bada, acquattati in un luogo tenebroso della memoria, quando meno ce lo aspettiamo ci saltano in faccia come gatti inferociti.
Probabilmente il presunto incanto che molta gente attribuisce all’infanzia è uno scherzo giocato dalla memoria.
Non è doloroso ricordare una situazione che per fortuna non è più tale, ma semplicemente riconoscere ciò che abbiamo provato in precedenza, ed è questa la cosa che niente, neppure un'amnesia o il migliore degli analgesici può cambiare. Il dolore rimane nella nostra coscienza come una bolla d’aria con l’interno intatto, in attesa di essere evocato o, nel migliore dei casi, tirato fuori.
Il silenzio, come il sale, è leggero solo in apparenza: in realtà, se si lascia che il tempo lo inumidisca, diventa pesante come un’incudine.
Il corpo in cui siamo nati non è lo stesso con cui lasciamo il mondo. Non mi riferisco soltanto alle cellule che mutano un’infinità di volte, ma ai suoi segni distintivi, ai tatuaggi e alle cicatrici che con la nostra personalità e le nostre convinzioni aggiungiamo via via, per tentativi, meglio che possiamo, senza guida né indicazioni.