Roma, 5 dicembre 1981. Dopo un sanguinoso conflitto a fuoco tra terroristi di estrema destra e agenti di polizia cade senza vita sull'asfalto il ventunenne Alessandro Alibrandi, detto «Alì Babà», uno dei neofascisti più temuti e violenti della capitale. Militante di primo piano dei Nuclei Armati Rivoluzionari, il figlio del giudice Alibrandi vanta un curriculum criminale che comprende stretti rapporti con la Banda della Magliana, numerosi omicidi, una lista sconfinata di rapine e un'esperienza di guerra in Medio Oriente tra le milizie cristiane dei Falangisti libanesi.
Reduci dal Libano assieme ad «Alì» sono presenti nel gruppo di fuoco anche i diciannovenni Pasquale Belsito e Walter Sordi, anch'essi militanti dei NAR assieme al loro camerata Ciro Lai, di anni venticinque. Il commando di neofascisti era alla ricerca di una pattuglia della polizia da disarmare ma un agente a bordo di una volante ha riconosciuto il latitante Alibrandi. Quest'ultimo, senza esitare, ha estratto dal giaccone una Smith & Wesson facendo fuoco per primo.
Al termine della sparatoria restano feriti anche due agenti, uno dei quali in modo estremamente grave. Si tratta di Ciro Capobianco, poliziotto napoletano di anni ventuno. Raggiunto ai polmoni dalle pallottole morirà in ospedale dopo due giorni di agonia. Il terrorista Walter Sordi viene invece colpito ad una mano. L'indomani, nell'organizzare la convalescenza del proprio camerata, Lai e Belsito si imbatteranno casualmente in una pattuglia dei carabinieri dando vita ad un altro conflitto a fuoco che terminerà con la morte dell'appuntato trentottenne Romano Radici.
Nel 2013, nel corso di un'intercettazione ambientale, Massimo Carminati parlerà della morte di Alibrandi attribuendola ad un errore dei suoi camerati (il cosiddetto «fuoco amico») affermando: «Me l'ha detto Lai che stava là! Per altro non è mai uscita la cosa»