La maggior parte di noi per gran parte di questo funesto 2020 si è vista costretta ad una nuova modalità di lavoro: siamo passati da una quotidianità settimanale scandita dalle otto ore trascorse in ufficio ad una routine monotona e piatta del lavoro da casa (attenzione: volutamente non lo definisco smart working perché ciò che stiamo sperimentando è tutt'altro).
Per coloro che erano poco o per nulla abituati a siffatte modalità, ha significato essere letteralmente travolti dal lavoro e dai doveri familiari che lo stare a casa comporta.
Questo scenario viene in parte fomentato da due grandi attori protagonisti: noi stessi, poco avvezzi all'organizzazione del lavoro da casa, e i datori di lavoro “meno illuminati” che non adeguano il loro modello di leadership al nuovo contesto lavorativo: anzi, inaspriscono le modalità di controllo (quando invece smart working = meno controllo).
Eppure ormai è risaputo: Numerose ricerche hanno evidenziato che un solido e proficuo rapporto di fiducia tra direzione e impiegati è fondamentale per creare un ambiente di lavoro performante.
Secondo una ricerca di Accenture, tuttavia, sembra che siamo sulla buona strada: il 55% dei CEO ritiene che la mancanza di fiducia sia una minaccia per la crescita della propria organizzazione.
Allo stato attuale tutto ciò si traduce per la maggior parte dei poveri lavoratori con una presenza fissa davanti al pc ben più delle otto ore canoniche, e con la propria coscienza che si sente in dovere di essere sempre reperibile, anche a costo di rinunciare ad una legittima pausa pranzo.
La soluzione a tutto questo è certamente un auspicabile cambiamento di mindset sia dal lato del lavoratore che del capo: da una valutazione basata sul numero di ore lavorate ad un più moderno approccio basato sul raggiungimento di obiettivi individuali.
In attesa che i guru del change management impongano testa e cuore sulle aziende, cosa possiamo fare nel nostro piccolo?
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