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Tra il 1919 e il 1935 si sviluppò in Germania il movimento artistico noto come Nuova oggettività, che ritraendo i propri soggetti non come apparivano agli occhi ma com’erano moralmente, dunque “oggettivamente” brutti e grotteschi, affrontò soprattutto il tema della città, intesa come un luogo di perdita dell’identità collettiva e come lo scenario di un orrido carnevale. Il movimento si legava alla recente esperienza espressionista, con la quale condivideva l’uso di una linea contorta e tormentata, l’adozione di un cromatismo acceso e violento, la scelta di composizioni drammatiche e sgradevoli. Gli artisti più significativi della Nuova oggettività furono i tedeschi George Grosz e Otto Dix, i cui personaggi tragicomici, esponenti dell’alta borghesia e dell’esercito, sono mostrati spenti e svuotati, oppure cinici e spregevoli.
Formatosi a Dresda e a Berlino, George Grosz (1893-1959) partecipò, come Dix, alla Prima guerra mondiale, ma venne presto congedato per motivi di salute: il trauma psicologico provocato dalla guerra di trincea e il conseguente esaurimento nervoso richiesero, infatti, il suo ricovero in un ospedale militare. Dopo un esordio con prove cubiste e futuriste, contribuì, nel 1918, alla nascita del Dada berlinese; nel 1920 fu tra i principali promotori della Nuova oggettività.
Nonostante avesse aderito al partito comunista tedesco, Grosz non volle mai fare della sua pittura un semplice strumento di propaganda politica, destinandola ad un compito ben più alto: offrire una testimonianza drammatica e sconvolgente di un mondo che traboccava violenza e sessualità. Avendo riconosciuto la follia della Prima guerra mondiale, non divenne preda del patriottismo ostentato dalla maggioranza dei suoi connazionali. Al contrario, decise di denunciare il “crollo del mondo borghese”.
Le sue opere, tutte di fortissimo impatto visivo, sono ricche di situazioni grottesche, affollate di mutilati di guerra senza speranza, disoccupati sull’orlo della disperazione, militari tracotanti e senz’anima, viscidi docenti senza dignità, preti grassi e boriosi privi di carità. Nessun altro artista si scagliò mai con la medesima, lucida passione etica contro il perbenismo piccolo-borghese, l’ipocrisia del clero, l’ottusa spietatezza dell’esercito, la pochezza della politica.
Durante gli anni della Prima guerra mondiale, Grosz dipinse due capolavori dal marcato carattere espressionista: Metropolis e Il Funerale (Dedicato a Oskar Panizza). Metropolis affronta il tema della città moderna, frutto di una trasformazione fuori controllo che stava rendendo i centri urbani fuori scala, caotici, privi di misura d’uomo. In questo senso, la posizione di Grosz era profondamente divergente da quella, contemporanea, dei futuristi italiani, che invece esaltavano il progresso identificandolo proprio nella Città Nuova.
Nel quadro di Grosz, la metropoli, identificabile con Berlino, è l’espressione del caos più incontrollabile. Prevale, nella scena, il colore rosso. L’influenza del Futurismo italiano in quest’opera è abbastanza evidente, nelle visioni simultanee, nella sovrapposizione delle figure che richiamano il ritmo febbrile della vita cittadina, ma l’artista tedesco ribalta completamente il significato del soggetto: il caos, vitalistico per i futuristi, qui ha una valenza distruttiva, quasi apocalittica.
Di questo soggetto esiste una seconda versione, una tavoletta oggi conservata al MoMA di New York, la cui composizione è tutta organizzata sulla diagonale. Gli edifici caoticamente ammassati, inclinati e instabili, creano una trappola claustrofobica. Pochi ma significativi personaggi, tra cui una prostituta seminuda, simboleggiano il vizio e la lussuria. «Ho disegnato e dipinto per uno spirito di contraddizione”, avrebbe chiarito Grosz, «e ho tentato nel mio lavoro di convincere il mondo che questo mondo è brutto, malato e mendace».
Il Funerale (Dedicato a Oskar Panizza) venne dipinto negli stessi anni di Metropolis. Il soggetto è quello di un corteo funebre, che il titolo suggerisce essere per Oskar Panizza, psichiatra e intellettuale tedesco che, in realtà, in quegli anni non era ancora morto. Panizza, nelle sue opere teatrali, si era opposto a ogni forma di militarismo e di autorità religiosa, ai tabù sessuali e alla morale borghese, attirandosi per questo gli strali sia della Chiesa sia del governo. Era stato condannato per blasfemia e rinchiuso in manicomio (dove avrebbe trascorso i ultimi 16 anni della sua vita). Grosz era molto affascinato dalla sua figura.
Il quadro è l’allegoria macabra e grottesca dell’umanità, deviata dalla corruzione e dal male. È lo stesso Grosz a chiarirlo, quando scrive: «In una strana strada di notte, una processione infernale di mulini di figure disumanizzate, i loro volti che riflettono alcol, sifilide, peste […]. Ho dipinto questa protesta contro l’umanità che era impazzita». Nel dipinto, lo scorcio di città ricorda quello della sua opera precedente, Metropolis, con una strada gremita di gente e alti edifici moderni, apparentemente instabili e prossimi ad implodere, a crollare sulla piccola chiesa che appare fuori scala e fuori luogo.
I rossi fiammeggianti richiamano atmosfere infernali. I personaggi orrendi e deformi della folla, simili a quelli di Ensor, seguono un sacerdote (con la faccia tonda e un crocifisso in mano) e la Morte in forma di scheletro (come nelle danze macabre della pittura medievale), seduta sulla bara e intenta a bere da una bottiglia. In primo piano, la folla è preceduta da mostri identificabili con l’alcolismo, la sifilide e la peste.
In Giornata grigia, del 1921, Grosz rappresentò con cinica ironia un borghese che si reca compiaciuto al lavoro. L’impeccabile eleganza conferita dal rigido colletto bianco, dalla decorazione all’occhiello, dalla cartella sotto il braccio è ridicolizzata dalla faccia tonda come una biglia del protagonista e dallo sguardo strabico dei suoi piccoli occhi. Un muro separa simbolicamente il borghese agiato da un mutilato e da un lavoratore con il badile sulla spalla.
Con I pilastri della società, del 1926, Grosz, come lui stesso spiegò, volle «convincere il mondo della sua bruttura, della sua malattia, delle sue menzogne». Il quadro raffigura infatti i rappresentanti delle classi dominanti della Germania del primo dopoguerra: si riconoscono giudici, militari, politici, borghesi, nazisti. Le figure sono assiepate nello spazio verticale del dipinto e rappresentate con toni grotteschi e sarcastici, esteriormente rivoltanti perché moralmente indegne. Un uomo, probabilmente un giornalista corrotto, porta un orinale per cappello.
Altri due hanno le teste scoperchiate. Da quella del nazista in primo piano, che ha un boccale di birra in una mano, una spada nell’altra e il simbolo della svastica sulla cravatta, fuoriesce la figura di un cavaliere armato, simbolo della sua ossessione per la guerra. La testa del politico obeso, grasso, flaccido e compiaciuto della sua condizione, è piena di escrementi fumanti. Il prete ubriaco chiude gli occhi per non vedere e scappa ignorando la realtà che lo circonda. Sullo sfondo, i militari portano morte e distruzione in una città già in fiamme.
Grosz fece della propria arte una forma di impegno politico, anche se non di esplicita propaganda. In età di crisi, è compito della pittura, affermò, «convincere il mondo della sua bruttura, della sua malattia, delle sue menzogne». Ci sono momenti, aggiunse, in cui un artista ha il dovere morale di rinunciare all’arte pura. «Senza dubbio», scrisse a un amico, «i miei disegni sono anche quanto di più forte sia stato detto contro la brutalità tedesca.
Oggi sono più veri che mai, in futuro, in tempi, perdonami, più umani, verranno messi in mostra così come oggi vengono mostrati i lavori di Goya». Nel corso della mostra dadaista del 1920 a Berlino, appese al soffitto il pupazzo di un uomo con la testa di un maiale e la divisa di un soldato tedesco, ricavandone una condanna per oltraggio all’onore del Reich. Fu altre volte denunciato e processato con altri capi di accusa: incitamento all’odio di classe, oltraggio al pudore, vilipendio alla religione. Nel 1931, pubblicò un articolo in cui esortò i tedeschi a non fidarsi di Hitler è prefigurò un’apocalisse imminente.
Nel gennaio del 1933, poche settimane prima che il Führer prendesse il potere, le SS cercarono di arrestare l’artista e distrussero il suo studio a colpi di scure. Grosz riuscì a rifugiarsi negli Stati Uniti; 285 delle sue opere vennero rimosse dalle collezioni pubbliche e altre, tra cui Metropolis, inserite nella Mostra dell’Arte Degenerata, che il regime allestì nel 1937 per ridicolizzare pubblicamente gli artisti di opposizione. In America, dove visse fino al 1959, l’artista continuò a produrre una gran quantità di disegni e acquarelli, nonostante la sopraggiunta dipendenza dall’alcol e le crisi depressive sempre più frequenti.
L'articolo George Grosz proviene da Arte Svelata.
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Tra il 1919 e il 1935 si sviluppò in Germania il movimento artistico noto come Nuova oggettività, che ritraendo i propri soggetti non come apparivano agli occhi ma com’erano moralmente, dunque “oggettivamente” brutti e grotteschi, affrontò soprattutto il tema della città, intesa come un luogo di perdita dell’identità collettiva e come lo scenario di un orrido carnevale. Il movimento si legava alla recente esperienza espressionista, con la quale condivideva l’uso di una linea contorta e tormentata, l’adozione di un cromatismo acceso e violento, la scelta di composizioni drammatiche e sgradevoli. Gli artisti più significativi della Nuova oggettività furono i tedeschi George Grosz e Otto Dix, i cui personaggi tragicomici, esponenti dell’alta borghesia e dell’esercito, sono mostrati spenti e svuotati, oppure cinici e spregevoli.
Formatosi a Dresda e a Berlino, George Grosz (1893-1959) partecipò, come Dix, alla Prima guerra mondiale, ma venne presto congedato per motivi di salute: il trauma psicologico provocato dalla guerra di trincea e il conseguente esaurimento nervoso richiesero, infatti, il suo ricovero in un ospedale militare. Dopo un esordio con prove cubiste e futuriste, contribuì, nel 1918, alla nascita del Dada berlinese; nel 1920 fu tra i principali promotori della Nuova oggettività.
Nonostante avesse aderito al partito comunista tedesco, Grosz non volle mai fare della sua pittura un semplice strumento di propaganda politica, destinandola ad un compito ben più alto: offrire una testimonianza drammatica e sconvolgente di un mondo che traboccava violenza e sessualità. Avendo riconosciuto la follia della Prima guerra mondiale, non divenne preda del patriottismo ostentato dalla maggioranza dei suoi connazionali. Al contrario, decise di denunciare il “crollo del mondo borghese”.
Le sue opere, tutte di fortissimo impatto visivo, sono ricche di situazioni grottesche, affollate di mutilati di guerra senza speranza, disoccupati sull’orlo della disperazione, militari tracotanti e senz’anima, viscidi docenti senza dignità, preti grassi e boriosi privi di carità. Nessun altro artista si scagliò mai con la medesima, lucida passione etica contro il perbenismo piccolo-borghese, l’ipocrisia del clero, l’ottusa spietatezza dell’esercito, la pochezza della politica.
Durante gli anni della Prima guerra mondiale, Grosz dipinse due capolavori dal marcato carattere espressionista: Metropolis e Il Funerale (Dedicato a Oskar Panizza). Metropolis affronta il tema della città moderna, frutto di una trasformazione fuori controllo che stava rendendo i centri urbani fuori scala, caotici, privi di misura d’uomo. In questo senso, la posizione di Grosz era profondamente divergente da quella, contemporanea, dei futuristi italiani, che invece esaltavano il progresso identificandolo proprio nella Città Nuova.
Nel quadro di Grosz, la metropoli, identificabile con Berlino, è l’espressione del caos più incontrollabile. Prevale, nella scena, il colore rosso. L’influenza del Futurismo italiano in quest’opera è abbastanza evidente, nelle visioni simultanee, nella sovrapposizione delle figure che richiamano il ritmo febbrile della vita cittadina, ma l’artista tedesco ribalta completamente il significato del soggetto: il caos, vitalistico per i futuristi, qui ha una valenza distruttiva, quasi apocalittica.
Di questo soggetto esiste una seconda versione, una tavoletta oggi conservata al MoMA di New York, la cui composizione è tutta organizzata sulla diagonale. Gli edifici caoticamente ammassati, inclinati e instabili, creano una trappola claustrofobica. Pochi ma significativi personaggi, tra cui una prostituta seminuda, simboleggiano il vizio e la lussuria. «Ho disegnato e dipinto per uno spirito di contraddizione”, avrebbe chiarito Grosz, «e ho tentato nel mio lavoro di convincere il mondo che questo mondo è brutto, malato e mendace».
Il Funerale (Dedicato a Oskar Panizza) venne dipinto negli stessi anni di Metropolis. Il soggetto è quello di un corteo funebre, che il titolo suggerisce essere per Oskar Panizza, psichiatra e intellettuale tedesco che, in realtà, in quegli anni non era ancora morto. Panizza, nelle sue opere teatrali, si era opposto a ogni forma di militarismo e di autorità religiosa, ai tabù sessuali e alla morale borghese, attirandosi per questo gli strali sia della Chiesa sia del governo. Era stato condannato per blasfemia e rinchiuso in manicomio (dove avrebbe trascorso i ultimi 16 anni della sua vita). Grosz era molto affascinato dalla sua figura.
Il quadro è l’allegoria macabra e grottesca dell’umanità, deviata dalla corruzione e dal male. È lo stesso Grosz a chiarirlo, quando scrive: «In una strana strada di notte, una processione infernale di mulini di figure disumanizzate, i loro volti che riflettono alcol, sifilide, peste […]. Ho dipinto questa protesta contro l’umanità che era impazzita». Nel dipinto, lo scorcio di città ricorda quello della sua opera precedente, Metropolis, con una strada gremita di gente e alti edifici moderni, apparentemente instabili e prossimi ad implodere, a crollare sulla piccola chiesa che appare fuori scala e fuori luogo.
I rossi fiammeggianti richiamano atmosfere infernali. I personaggi orrendi e deformi della folla, simili a quelli di Ensor, seguono un sacerdote (con la faccia tonda e un crocifisso in mano) e la Morte in forma di scheletro (come nelle danze macabre della pittura medievale), seduta sulla bara e intenta a bere da una bottiglia. In primo piano, la folla è preceduta da mostri identificabili con l’alcolismo, la sifilide e la peste.
In Giornata grigia, del 1921, Grosz rappresentò con cinica ironia un borghese che si reca compiaciuto al lavoro. L’impeccabile eleganza conferita dal rigido colletto bianco, dalla decorazione all’occhiello, dalla cartella sotto il braccio è ridicolizzata dalla faccia tonda come una biglia del protagonista e dallo sguardo strabico dei suoi piccoli occhi. Un muro separa simbolicamente il borghese agiato da un mutilato e da un lavoratore con il badile sulla spalla.
Con I pilastri della società, del 1926, Grosz, come lui stesso spiegò, volle «convincere il mondo della sua bruttura, della sua malattia, delle sue menzogne». Il quadro raffigura infatti i rappresentanti delle classi dominanti della Germania del primo dopoguerra: si riconoscono giudici, militari, politici, borghesi, nazisti. Le figure sono assiepate nello spazio verticale del dipinto e rappresentate con toni grotteschi e sarcastici, esteriormente rivoltanti perché moralmente indegne. Un uomo, probabilmente un giornalista corrotto, porta un orinale per cappello.
Altri due hanno le teste scoperchiate. Da quella del nazista in primo piano, che ha un boccale di birra in una mano, una spada nell’altra e il simbolo della svastica sulla cravatta, fuoriesce la figura di un cavaliere armato, simbolo della sua ossessione per la guerra. La testa del politico obeso, grasso, flaccido e compiaciuto della sua condizione, è piena di escrementi fumanti. Il prete ubriaco chiude gli occhi per non vedere e scappa ignorando la realtà che lo circonda. Sullo sfondo, i militari portano morte e distruzione in una città già in fiamme.
Grosz fece della propria arte una forma di impegno politico, anche se non di esplicita propaganda. In età di crisi, è compito della pittura, affermò, «convincere il mondo della sua bruttura, della sua malattia, delle sue menzogne». Ci sono momenti, aggiunse, in cui un artista ha il dovere morale di rinunciare all’arte pura. «Senza dubbio», scrisse a un amico, «i miei disegni sono anche quanto di più forte sia stato detto contro la brutalità tedesca.
Oggi sono più veri che mai, in futuro, in tempi, perdonami, più umani, verranno messi in mostra così come oggi vengono mostrati i lavori di Goya». Nel corso della mostra dadaista del 1920 a Berlino, appese al soffitto il pupazzo di un uomo con la testa di un maiale e la divisa di un soldato tedesco, ricavandone una condanna per oltraggio all’onore del Reich. Fu altre volte denunciato e processato con altri capi di accusa: incitamento all’odio di classe, oltraggio al pudore, vilipendio alla religione. Nel 1931, pubblicò un articolo in cui esortò i tedeschi a non fidarsi di Hitler è prefigurò un’apocalisse imminente.
Nel gennaio del 1933, poche settimane prima che il Führer prendesse il potere, le SS cercarono di arrestare l’artista e distrussero il suo studio a colpi di scure. Grosz riuscì a rifugiarsi negli Stati Uniti; 285 delle sue opere vennero rimosse dalle collezioni pubbliche e altre, tra cui Metropolis, inserite nella Mostra dell’Arte Degenerata, che il regime allestì nel 1937 per ridicolizzare pubblicamente gli artisti di opposizione. In America, dove visse fino al 1959, l’artista continuò a produrre una gran quantità di disegni e acquarelli, nonostante la sopraggiunta dipendenza dall’alcol e le crisi depressive sempre più frequenti.
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