American psycho: l’assassino “quantistico” che era, al tempo stesso, colpevole e innocente. Uno spaccato crudele e surreale degli yuppies anni ’80, forse una delle più autentiche e onnipresente “ombre” che hanno creato, per accumulo e sottrazione, il mondo capitalista in cui viviamo. Un film che racconta, senza filtri, quel mondo, strizzando l’occhio alla psicologia clinica ed alle teorie più accreditate sul narcisismo maligno. Se la regia della Harron è sinonimo di eleganza, non risparmia momenti gore e splatter ed è abilissima a mostrare le contraddizioni gli orrori delle città occidentali. È in grado di farlo, soprattutto, mediante contrapposizioni sociali: lo yuppie che vive per se stesso ed il proprio narcisismo congenito, ad esempio. Ma anche i suoi insulti all’uomo che vive per strada (che da bravo narcisista deve distruggere e far sentire in colpa), oppure la manipolazione delle sex worker con cui parla amabilmente della musica di Phil Collins, avendo cura che una sia ricca e l’altra no (ed il fatto che si consumi sesso a tre, in effetti, e che Patrick guardi più se stesso allo specchio che le due donne, meriterebbe quasi una trattazione a parte).