La Torah è un testo infinitamente complesso, che ammette ogni libertà di lettura tranne l’aut/aut. Il testo dice molte cose, racconta molte storie – d’amore e di guerra, di giustizia e di orrore. Manda a noi tanti messaggi, a volte contraddittori. Ma non ammette lo “scarto” – quel procedimento che porta Vito Mancuso a invitare alla “pesca” di ciò che pare più umano e più giusto e tralasciare quanto è più scomodo e financo inaccettabile in quel grande racconto dell’umanità che è la Bibbia. Non si tratta infatti di scegliere ma di accettare il testo per quello che è e che racconta e partire da questa “accettazione” del testo per dipanarne l’infinità di sensi e significati che esso contiene.
Così replica su La Stampa del 15 luglio Elena Loewenthal, studiosa di storia e letteratura ebraica, al filosofo e teologo Vito Mancuso che invocava un principio interpretativo legato “al principio di umanità”.
Al di là della controversia di ordine politico (la Bibbia ebraica come strumento per legittimare i crimini di guerra a Gaza), rimane un problema di fondo circa l’autorità morale del testo biblico e i criteri di interpretazione che più o meno consapevolmente ciascuno di noi utilizza per discernere e separare ciò che è umano da ciò che è ispirato. Criteri che – come è facile intuire – possono diventare fortemente arbitrari.
Abbiamo chiesto un parere al pastore Davide Romano, direttore dell’Istituto Universitario Avventista di Firenze.
Intervista a cura di Claudio Coppini e Roberto Vacca.
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