Il 3 Febbraio 2016 viene ritrovato un corpo nelle vicinanze di una prigione dei servizi segreti egiziani al Cairo, in un fosso lungo l’autostrada che collega la capitale egiziana ad Alessandria, sotto il cavalcavia Hazem Hassan.
Il corpo è nudo e presenta evidenti segni di tortura: contusioni e abrasioni in tutto il corpo come quelli che si sviluppano dopo un lungo pestaggio. Lividi estesi compatibili con lesioni da calci e pugni. Anche da un bastone.
Nonostante il corpo sia in queste condizioni e non vengano trovati documenti di alcun tipo, le autorità egiziane non hanno alcun dubbio: il corpo è quello di un ragazzo italiano che era stato rapito qualche giorno prima, il 25 Gennaio. Aveva 28 anni e si chiamava Giulio Regeni.
Il giorno successivo viene confermato che il corpo è quello di Giulio Regeni. Il direttore dell’Amministrazione generale delle indagini di Giza dice che le indagini preliminari parlano di un incidente stradale, nonostante il corpo presenti evidenti segni di tortura che vengono rilevate anche dal procuratore egiziano.
Il 9 Febbraio dal Cairo cominciano i depistaggi: per allontanare un coinvolgimento del governo, dopo l’ipotesi dell’incidente stradale, il regime di Al-Sisi fa pubblicare sui media amici le ipotesi più disparate: si parla di un omicidio maturato nel mondo della droga, quando invece l’autopsia ha stabilito che Giulio non ha mai fatto uso di sostanze stupefacenti. Si parla di una rapina, si allude alle frequentazioni di Giulio. Voci che però vengono immediatamente messe a tacere con i fatti, in Italia.
L’attivista per i diritti umani Mona Seif scrive che l’agente investigativo in Egitto a cui è stato affidato il caso di Regeni è Khaled Shalabi, condannato dal tribunale penale di Alessandria nel 2003 per aver falsificato un rapporto di polizia e aver torturato a morte un uomo.
Il 24 Marzo 2016 il ministero dell’Interno egiziano annuncia che sono stati uccisi cinque sequestratori legati alla morte di Regeni. Nell’abitazione della sorella del capobanda sarebbe stata trovata una borsa con all’interno i documenti di identità e gli effetti personali del ricercatore italiano. Il ministro dell’Interno egiziano pubblica sui social la notizia e le foto dei documenti di Giulio e di altri oggetti ben disposti su un vassoio di argento (tra questi degli occhiali femminili e un pezzo di hashish). Si scoprirà poi che le cinque persone uccise erano innocenti ed erano state utilizzate per realizzare un depistaggio raffazzonato e molto poco credibile.
Visto che l’Egitto non risponde alle richieste di invio di documentazioni, non collabora con gli investigatori italiani inviati al Cairo per le indagini e realizza depistaggi invece di aiutare la ricerca della verità, l’8 Aprile 2016 l’Italia ritira l’Ambasciatore dall’Egitto.
L’episodio di oggi di Se un ribelle spento è un modo semplice per chiedere ancora, a gran voce, Verità per Giulio Regeni.