Domenico Antonio Vaccaro e le fabbriche dell'Episcopio di Bari Il Palazzo dei vescovi: riflessioni preliminari sulle fabbriche dell’Episcopio di Bari (…) dove le notizie difettavano e mi mancavano i documenti Ricercai la verità sul monumento stesso interrogando le pietre, facendo le forme, delle quali cose sono molte volte più eloquenti di qualunque documento sincrono, tacendo alcune verità che l’aspetto dell’edificio te lo dice a chiare note (E. Bernich) L’Arcivescovo Muzio Gaeta Iuniore era stato ‘promosso e trasferito’ a Bari da S. Agata dei Goti forse da poco più di un anno quando nel 1737 affidò all’architetto napoletano Domenico Antonio Vaccaro il compito di ristrutturare e ‘ripensare’ il Seminario Arcivescovile di Bari. L’incarico era di quelli importanti, anche perché di lì a poco lo stesso Arcivescovo avrebbe affidato all’architetto il compito di ‘restaurare’ la Cattedrale barese e la chiesa di S. Giacomo delle Monache. Si trattò di opere di ‘ammodernamento’, conformi non soltanto al gusto barocco, ma rivolte soprattutto a quelle capacità mostrate dall’architetto Vaccaro di ‘leggere’ il monumento assecondando la sua storia ed anche il proprio contesto spaziale ed urbanistico. D’altra parte l’idea stessa dell’Arcivescovo Gaeta doveva concentrarsi proprio su questo aspetto: non si trattava soltanto di lavori di ristrutturazione, la necessità era quella di realizzare uno spazio urbano e un complesso architettonico che fungesse da scenario politico e religioso per l’attività del vescovo. Le intenzioni di Muzio Gaeta iuniore, comunque, non potevano non tener conto della ‘storia’ di tale complesso che sin dalle sue origini aveva costituito un vero e proprio ‘polo urbanistico’ nello sviluppo della città, contrapponendosi e bilanciando l’altro grande riferimento urbano costituito dalla basilica nicolaiana. Né tantomeno si potevano ignorare le originarie strutture di tale fabbrica alcune delle quali, nonostante gli interventi successivi, le distruzioni, gli inevitabili deterioramenti, appartenevano al Medioevo. Intenzioni vescovili che Vaccaro poteva non soltanto soddisfare, ma felicemente coniugare. D’altra parte l’architetto napoletano aveva dato importanti prove di come il concetto di ‘ammodernamento’ potesse coesistere con un’idea assolutamente innovativa di restauro inteso come intervento invasivo, ma non distruttivo e soprattutto rispettoso della fabbrica più antica. In questo senso il suo intervento presso l’Abbazia del Goleto a S. Angelo dei Lombardi, costituiva un esempio mirabile. Il complesso arcivescovile di Bari ed il Seminario rappresentavano un’isola urbana attigua al Duomo che venne resa omogenea probabilmente dagli interventi realizzati già dall’Arcivescovo Caracciolo, all’inizio del XVII secolo, ai quali fecero seguito quelli dell’Arcivescovo Ruffo alla fine del ‘600. Vaccaro intervenne su questa struttura sistemando l’aspetto del grande palazzo per quanto riguarda il prospetto che si affaccia sul cortile dell’Episcopio con soluzioni in stucco che tradiscono il gusto mistilineo dell’ornato barocco. I riferimenti sono quelli al palazzo napoletano Spinelli di Tarsia e all’Abbazia di Loreto, opere alle quali l’architetto lavorava proprio negli stessi anni durante i quali gli venne affidato l’incarico per l’Episcopio barese. Vaccaro, tuttavia, interveniva su strutture preesistenti e ben più antiche, di questo l’architetto napoletano diede a Bari esempio di come si potesse ‘ammodernare’ senza distruggere. “…Ha modernato l’antichissima cattedrale nella città di Bari, riducendola dall’ordine Gotico allo stile moderno”, sosteneva De Dominici, ma prima di porre mano all’edificio del Duomo, Vaccaro aveva sperimentato tali soluzioni proprio sulla facciata del Palazzo Episcopale. Anche in questo caso, infatti gli stucchi avevano coperto, ma non distrutto le murature precedenti che vennero in seguito portate alla luce negli anni ’60 quando i lavori di restauro del Palazzo Arcivescovile rivelarono le più antiche strutture che, per stile e caratteri, non potevano che appartenere al Medioevo. La fase seicentesca dell’edificio che, come vedremo in seguito, costituisce comunque un adattamento di elementi precedenti, assume un connotato omogeneo sul quale intervenne Domenico Antonio Vaccaro. Strutture che probabilmente sin dagli interventi seicenteschi avevano come obiettivo quello di rendere una serie di edifici come un unico elemento urbano. Le fabbriche del Palazzo come quelle del Seminario vennero pensate a far da cornice al cortile episcopale, impreziosito dal vescovo Sersale con la guglia e la statua di S. Sabino, ed integrate con le strutture del Duomo che pure, soprattutto negli esaforati esterni, avevano subito considerevoli interventi per ricavarne ambienti destinati ai canonici. Tale complesso dalla planimetria inequivocabile e stretta intorno al cortile interno dell’Episcopio suggerì al Vaccaro l’intervento per la monumentalizzazione della facciata del Seminario incastonata nei due corpi laterali aggettanti con “quel bizzarro ma non inelegante prospetto che veggiamo, collocandovi in mezzo una gran terrazza ornata di pilastri, sostegno a geminati busti marmorei’ come ebbe a scrivere G. Petroni sul finire del 1800. Benché tale sistemazione, dalle pur avare fonti storiche, venga attribuita all’intervento voluto dall’Arcivescovo Muzio Gaeta Iuniore e realizzato in due anni dall’architetto Vaccaro, non si può escludere che fabbriche precedenti fossero già in uso ed avessero una loro funzionalità all’interno del Palazzo e del Seminario Arcivescovile. Tali notizie sembrano avere pochi punti di contatto con gli interventi seicenteschi, se le antiche mappe e vedute della città non molto segnalano degli edifici attigui alla Cattedrale, così i documenti relativi ai vescovi del Sei e Settecento poco indugiano sulle fabbriche preesistenti, spesso si limitano a porre in risalto le cattive condizioni in cui si trovavano gli edifici e ad invocarne urgenti interventi di ristrutturazione o di restauro. Tutto questo non fornisce importanti riscontri su quali e soprattutto su come fossero organizzati gli edifici vescovili, ma soprattutto se ci potessero essere tracce di una fase romanica di tali fabbriche. Di certo furono i restauri condotti nel 1961 a dare una significativa risposta a tali interrogativi ‘riscoprendo’, sotto gli stucchi vaccariani del palazzo del Seminario le più antiche opere murarie presumibilmente risalenti al Medioevo. La prima considerazione che a questo punto sembra da fare consiste nel riconoscere, ancora una volta, all’architetto Vaccaro la sensibilità nell’aver rispettato, coprendole, le strutture più antiche così come avrebbe fatto pochi anni dopo all’interno della stessa Cattedrale. Inoltre nell’aver ripensato la facciata monumentale conservando non solo l’impianto, ma anche l’immagine strutturale più antica e adattandola alle esigenze, formali ma anche funzionali, dei suoi tempi. Una sorta di ‘restyling’ in chiave moderna di un tratto di edificio storicamente legato alle fabbriche del duomo e di certo, già nei presupposti, aperto su quella che nel ‘700 sarebbe diventata la piccola piazza del cortile vescovile. “Il primo piano – del Palazzo del Seminario – doveva presentarsi come il più ricco; esso presentava flessuosi stucchi che si snodavano con morbide volute a seguire il motivo del timpano spezzato delle finestre con l’unica eccezione di quella centrale…Le finestre del secondo piano esibiscono, invece, ancor oggi cornici con andamento concavo-convesso che inscrivono una conchiglia…Infine, all’ultimo livello, le aperture sono inquadrate da profili molto semplici e lineari, mentre l’unico elemento ornamentale è nel paramento murario che le separa l’una dall’altra.”. Il riferimento avanzato è quello al palazzo Spinelli di Tarsia ed al modello europeo (austriaco) ‘ove la cour d’honneur si offriva alla stregua di un balcone panoramico’. In questo caso, tuttavia, soffermerei l’attenzione soprattutto al progetto vaccariano di ‘ammodernamento e restauro’ dove l’equilibrato intervento sembra obbedire soprattutto al rispetto delle strutture precedenti ed alla ‘storia’ delle fabbriche così come era accaduto proprio in occasione dei lavori che l’architetto aveva compiuto presso l’abbazia del Goleto. L’architetto che studia con scrupolo l’edificio per conservarne quanto più possibile ‘(…) al fin di non diroccarne senza precisa necessità le mura men lese, e che con poca fatiga e molto meno interesse potean rifarsi’. Non è tanto da sottolineare, dunque, quali fossero i riferimenti e le relazioni stilistiche adottate dal Vaccaro anche a Bari, quanto la capacità dell’architetto di ‘leggere e rispettare’, la fabbrica cercando in ogni caso di provvedere a quel disegno, che ritengo anche il vescovo Gaeta iuniore, considerasse opportuno: cioè di realizzare un complesso unitario, un’isola da riconoscere all’interno del tessuto urbano. Purtroppo tale equilibrio e rispetto del Vaccaro per le fabbriche più antiche è stato possibile individuarlo soltanto attraverso i restauri del secolo scorso i quali, mentre per il Palazzo del Seminario hanno ‘salvato’ i connotati barocchi degli interventi dell’architetto napoletano, all’interno della Cattedrale li hanno completamente cancellati. Operazioni giustificate da quell’ardore dei primi del Novecento di ‘restituire’ al Medioevo una fabbrica deturpata dalla veste barocca che aveva animato i dibattiti dell’epoca e che per fortuna durante gli interventi del 1961 si era affievolito tanto da riportare alla luce i paramenti murari medievali del Palazzo del Seminario senza per questo eliminare del tutto l’opera vaccariana. Riferimenti bibliografici M. Triggiani, Il palazzo dei Vescovi: riflessioni preliminari sulle fabbriche dell’Episcopio di Bari (https://www.academia.edu/1031307/Il_Palazzo_dei_Vescovi_riflessioni_preliminari_sulle_fabbriche_dellEpiscopio_di_Bari