La citazione kafkiana – posta in esergo alle opere d’arte di Prisco De Vivo (artista figurativo e geniale poeta e designer) e ai versi di Raffale Piazza (noto poeta e giornalista) -, ci ricorda una certa predilezione dello scrittore praghese Franz Kafka (Praga 1883 – Kierling, Vienna, 1924) per la notte e per il buio. Anzi per il nero, che potenzialmente potrebbe trasformarsi in bianco. Non ancora, in prima battuta, il nero degli imminenti nazismi e dei fascismi e il buio dei campi di concentramento e di sterminio, dove ammassare ebrei, bambini, folli, zingari e diversi, per tipizzarli e studiarli mediante una medicina e una scienza che si stanno oscuramente piegando al Manifesto della razza. Il nero kafkiano – che Prisco De Vivo oggi trova e riprende – è, piuttosto, quello delle copertine degli antichi quaderni per la scuola elementare, con il loro colore scuro e le loro pagine a quadretti, che aspettavano tratti di matita e macchie di pastelli. Matite e tratti che, ora, trasformano le pagine bianche con macchie scure. Metamorfosi del bianco in scuro e delle sfumature di scuro verso il bianco, trasformazioni della materia e degli sguardi. Del resto, nella ruota delle metamorfosi, di ogni metamorfosi, “siede l’uomo nella parte eminente, giace una bestia al fondo, un mezzo uomo e mezzo bestia discende dalla sinistra, ed un mezzo bestia e mezzo uomo ascende de la destra”, come negli sguardi onirici di fra’ Giordano Bruno Nolano. E la mente, di fronte a questo libro regalatoci da De Vivo e da Piazza, non può che andare da Omero a Rowling, passando per il nord-africano Apuleio (II secolo d.C.), fino a Dante, Bruno, Pasolini e, soprattutto, come ora accade in questo volume, che rileggiamo, per Kafka.
Davanti all’occhio di De Vivo, infatti, non vi è l’azzurro degli otto “quadernetti di vocaboli” di Kafka, editi sulla base di quanto offriva Max Brod. In quei quadernetti, lo scrittore praghese aveva affrescato la camera che è in ognuno di noi di notte. Stesi tra il 1917 e il 1919, poco prima di scrivere quel lungo documento rivelatore, che sarà la Lettera al padre, quei piccoli quaderni – in cui lo scrittore sembra disposto a dar adito fin negli angoletti più riposti e scabrosi del suo cuore – apriamo l’occhio sul senso del buio e della notte. Ma a Kafka piaceva davvero la notte, il buio, il nero? Josef K., il protagonista de Il processo (scritto da Kafka tra il 1914 e il 1917 e pubblicato postumo nel 1925) si trova sottoposto, a seguito di un’imprecisata accusa, a un processo: esso avviene nel solaio di un vecchio, squallido, buio e labirintico condominio. Qui conosce anche un pittore, di nome Titorelli che, pur essendo assai povero, lavora come ritrattista per il tribunale, per cui sa riconoscere perfettamente tutti i meccanismi del tribunale e della Legge, ma poi sarà comunque sfrattato coi suoi quadri. Ne Il processo prevalgono i luoghi chiusi, scuri e asfittici, come il tribunale. Ma la figura di Titorelli è proprio quella che può maggiormente invogliare l’occhio di Kafka, ma pure di De Vivo, a guardare, seppur di notte. Dalle carte di Kafka – che furono salvate dal suo amico ed esecutore testamentario Max Brod, che le portò con sé prima in Turchia e poi in Israele, fuggendo davanti alla invasione tedesca di Praga – fu pubblicato, del resto (contro la volontà dell’Autore, che glieli aveva affidati con la clausola di non editare) anche questo racconto brevissimo. Si tratta di un lavoro di scrittura-meditazione che, come altri, avrebbe potuto essere sviluppato in quaderni e appunti. Di notte presenta, appunto, la figura un insonne, il custode, il quale legge e si interroga nel buio della notte, quasi vegliando sulle domande di chi non può o non riesce a dormire, e forse egli sta custodendo, cioè vegliando, anche sul sonno inconscio dei dormienti: «E tu sei sveglio, sei uno dei custodi, trovi il prossimo agitando il legno acceso nel mucchio di stipe accanto a te. Perché vegli? Uno deve vegliare, dicono. Uno deve essere presente» (Franz Kafka 1920, tr. it. di E. Pocar).
Se uno dev’essere presente, ecco il nero e il chiaro del nostro artista. Tuttavia, tutto questo non deve accadere ora davanti ai nostri occhi di carne e agli occhi della nostra mente. Perché, a ben guardare, lo scuro e le ombre della notte non sono mai piacevoli per Kafka, bensì esse accadono a motivo dell’insonnia, che non lascia dormire e, spesso, invece di calmare e rasserenare, incute paura. Dopo pagine scure, anche nel volume di Prisco De Vivo e Raffaele Piazza, la prima macchia di colore; anzi – come bene annota Manuela Gandini a pagina 11 - ecco la nuova “creazione” dell’artista: un volto senza tratti, ma soltanto con un occhio aperto((⏱️=400))vuoto. È lo sguardo trasfigurato dell’artista, che intraprende così una sua peculiare metamorfosi di sguardi dal buio al chiarore, dalle ombre indistinte ai tratti somatici, non senza introdurre sempre nuovi scuri, nuove notti, nuovi scenari, nuove metamorfosi((⏱️=500)) nelle pagine a seguire. Impotenza dell’uomo innanzi ad una realtà tutt’altro che leggibile, oppure trasformazioni dello sguardo sul reale, dove lo scuro sta orientando lo sguardo umano oltre la notte e il buio? Non è questo il vero significato di ogni metamorfosi, cioè il potere di trasformare lo sguardo, che invece rischia di perdersi nella figura di un asino che non ha le ali, oppure nei quadrettini di un quaderno dalla copertina nera. Come recuperare quell’occhio, quello sguardo chiarissimo, presente in alcuni tratti di De vivo, che ci facciano risalire dalle viscere oscure della materia e dei materiali pittorici e fotografici, verso il chiaror del vero? «Che vuol dir/ questa solitudine immensa?», domandava già il leopardiano pastore errante dell’Asia. Nel libro secondo delle Metamorfosi di Ovidio si leggeva: «Alla fine la madre Terra, circondata com’era dal mare, fra quelle onde e le fonti consunte, che dov’era luogo/ cercavano di rintanarsi nelle sue viscere oscure» (versi 272-274). Ecco il buio delle viscere oscure della notte. E tuttavia, anche in tutto questo scuro, l’occhio, dal basso kafkiano di oggi, si può ancora elevare verso l’alto: non si perde mai la speranza dell’aurora, come già cantava Ovidio: «Mentre ti parlo, la notte umida ha raggiunto la meta posta sulle coste di Esperia. Non ci sono concessi indugi((⏱️=400)) siamo attesi; disperse le tenebre, l’Aurora risplende» (libro secondo, versi 142-144). Sì, siamo attesi alla fine del buio e della notte, ma anche delle immagini e delle parole del libro, di ogni libro: «L’aurora seguente aveva rimosso i fuochi della notte, il sole sciolto coi suoi raggi la brina nei prati e loro/ si ritrovarono in quel luogo. Con lieve bisbiglio allora, dopo essersi a lungo lamentati, decisero di eludere i custodi, di tentare la fuga nel silenzio della notte e, una volta fuori casa, lasciare la stessa città» ((⏱️=400))(Libro quarto, versi 81-86). La metamorfosi della figliola di Inaco in giovenca è anche un tentativo di fuga fuori di casa, fuori dalla città, fuori dalle mere orecchie asinine, fuori dal buio((⏱️=400))verso in alto: «L’aurora seguente aveva rimosso i fuochi della notte, il sole sciolto coi suoi raggi la brina nei prati e loro/ si ritrovarono in quel luogo. Con lieve bisbiglio allora, dopo essersi a lungo lamentati, decisero di eludere/ i custodi, di tentare la fuga nel silenzio della notte/ e, una volta fuori casa, lasciare la stessa città» (libro primo, versi 81-86). Il custode kafkiano sembra ora additare un’altra figura, quella dell’artista e poeta Camillo Capolongo ((⏱️=400))(Roccarainola, 25 settembre 1940 – Roccarainola, 21 luglio 2013)((⏱️=400)) il quale, come ci dicono le didascalie del volume, fa intravvedere un “novello Kafka((⏱️=500)) vissuto nel Deserto del dissenso”. Il deserto del dissenso, anzi ogni deserto, è quello alternativo al giardino originario della creazione. È ancora quello del popolo d’Israele, che lascia l’Egitto sotto la guida di JHWH, il quale, secondo il racconto sacro, non teme di non avere “chi lo comanderà”; anzi sceglie lui stesso le guide (ora Mosè, ora Giosuè, il cui nome latino – Iesus – agli occhi dei Padri della Chiesa, pre-figura un altro Iesus, il vero, che si pone a capo del popolo delle genti); sceglie lui i gesti, i passi e gli itinerari, perfino le medicine contro i veleni delle aspidi delle terre aride, come risulta da libro biblico dei Numeri e di Giosuè. Il deserto di Capolongo non fu quello di Canaan e del preludio alla terra promessa. Fu quello del dissenso. Le collaborazioni di Capolongo con intellettuali dell’avanguardia europea come Jean Jacques Lebel, Steve Lacy, Julien Blaine, lo condussero all’avanguardia de Il sociale. Una metamorfosi del sociale, che non è il folklorico e il popolare, ma è appunto quel “sociale” in cui l’artista s’immerge, non per cercare ispirazione o per portare confortevoli momenti di svago, ma per costruire una coscienza politica comune.
L’arte in tutte le sue infinite declinazioni (poesia, teatro, pittura e scultura, design cd architettura), dev’essere disponibile alle metamorfosi, cioè legarsi alle scienze umane (sociologia, antropologia, ecologia((⏱️=400))), per realizzare progetti e modelli di vita collettiva giusti ed equilibrati.
La Prefazione al volume di cui parliamo (un insieme di brevi giudizi e squarci sulle liriche, gli scuri e le figure a colore) si apre, perciò, con le battute fulminanti di Rosaria Ragni Licinio, che tratteggia i contorni della “cosa” di Prisco De vivo e Raffaele Piazza: «un libro d’artista e al contempo((⏱️=400)) una silloge poetica il cui protagonista è lo scrittore praghese Franz Kafka((⏱️=400)) a partire da “La Metamorfosi”, “Il Processo” e “Il Castello”» ((⏱️=400))(pagina 9)((⏱️=400)). Questo viene ribadito da una serie di brevi post di Gian Ruggero Manzoni, Giuseppe Conte, Manuela Gandini. Ma la cosa del libro si apre con la figura di Kafka, tratteggiata da Prisco De Vivo e dalle sue poesie, mediante le quali egli cerca d’incontrare...