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I mosaici della Basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna costituiscono uno straordinario esempio di evoluzione del mosaico altomedievale, dall’età tardo-paleocristiana a quella bizantina. Sono quindi una testimonianza preziosissima di arte musiva del VI secolo, e giustamente considerati tra i più belli al mondo.
Ravenna altomedievale
Tra il V e il VI secolo d.C., Ravenna visse un periodo di straordinaria fortuna politica, culturale e artistica. Nel 402, infatti, l’imperatore Onorio decise di trasferire, da Milano, la sua residenza imperiale in questa città. La nuova, inaspettata condizione di capitale dell’Impero romano d’Occidente richiese una eccezionale espansione urbana e la costruzione di nuovi palazzi, di chiese e di battisteri, tutti splendidamente decorati, come si conveniva agli edifici monumentali di una città così autorevole.
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Sempre a Ravenna fu deposto, nel 476, l’ultimo imperatore dell’Impero occidentale, Romolo Augustolo, per mano di Odoacre, re degli Eruli. Teodorico, re degli Ostrogoti, mantenne questa città capitale del nuovo Regno ostrogoto d’Italia, dal 493. Con la conquista bizantina ad opera di Giustiniano, Ravenna, presa nel 540, fu eletta nel 553 a sede dell’esarca, il quale governò il territorio italiano per conto dell’imperatore d’Oriente, e resistette a lungo alla conquista longobarda, iniziata nel nord Italia nel 568; cadde, infatti, solo nel 751.
S. Giampiccoli, Veduta dei Ravenna e delle sue mura, 1778-80. Incisione. Ravenna, Biblioteca Classense.
La storia di Sant’Apollinare Nuovo
Sin dal IV secolo, Ravenna aveva mantenuto legami culturali strettissimi con l’ambiente romano e soprattutto con quello milanese; prova ne sono le sue chiese paleocristiane, che presentano la tipica pianta basilicale con abside e senza transetto.
Così è per la Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, uno dei più importanti edifici paleocristiani di Ravenna. Fu costruita, a partire dal 505, come chiesa palatina di Teodorico (e quindi riservata all’uso della sua corte), con il nome di Domini Nostri Jesu Christi. Inizialmente venne destinata alle liturgie del culto ariano. Il culto ariano (o arianesimo) fu un’eresia originatasi dalla predicazione di Ario, che affermava la natura non pienamente divina di Cristo e negava il principio della sostanziale identità delle persone della Trinità. Questo culto fu condannato nel 325 dal Concilio di Nicea.
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Dopo la sconfitta di Teodorico e la conquista di Ravenna da parte dei bizantini, la basilica venne donata da Giustiniano alla Chiesa cattolica e riconsacrata a San Martino di Tours (difensore della fede cattolica e oppositore di ogni eresia), con un nuovo nome: San Martino in Ciel d’Oro. Nel IX secolo, si decise di trasferire proprio in questa chiesa, che si trovava dentro le mura della città, le reliquie del protovescovo Apollinare, prima conservate nella Basilica di Sant’Apollinare in Classe. Questo, per difenderle meglio dalle frequenti incursioni piratesche sulla costa ravennate. Così, San Martino in Ciel d’Oro divenne per tutti Sant’Apollinare Nuovo.
Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, primo quarto del VI sec. Ravenna.
L’architettura di Sant’Apollinare Nuovo
La facciata di Sant’Apollinare Nuovo, con il suo semplice paramento in laterizio, è a salienti, aperta in alto da una grande bifora in marmo, a sua volta sormontata da due piccole monofore affiancate. Il tradizionale quadriportico era sostituito da un portico d’ingresso detto nartece (dal greco antico nàrthex), che in area ravennate era anche chiamato ‘ardica’ (dal bizantino nàrtheka). Quello attuale, ricostruito nel XVI secolo in forme classiche, è del tutto incongruente con la chiesa paleocristiana. Il campanile, a pianta circolare, è in mattoni e risale al IX o al X secolo.
Campanile di Sant’Apollinare Nuovo, IX o X secolo. Ravenna.
La pianta longitudinale è divisa in tre navate da colonnati che sorreggono archi rialzati, con dodici coppie di colonne poste una di fronte all’altra. La navata centrale è larga il doppio di quelle minori. La chiesa era un tempo conclusa da un’abside mosaicata, semicircolare all’interno e poligonale all’esterno, già ricostruita nel XVI secolo e poi nuovamente distrutta durante la Seconda guerra mondiale.
Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, primo quarto del VI sec., interno. Ravenna. Mosaici del VI sec.
I mosaici paleocristiani
La Chiesa di Sant’Apollinare Nuovo conserva ancora buona parte dell’originario ciclo musivo tardo paleocristiano, risalente al primo quarto del VI secolo. Tale ciclo, realizzato per celebrare il nuovo sovrano, Teodorico, e la sua corte, ricopriva in origine il cleristorio (ossia la parete che si trova sopra gli archi che dividono le navate) su tre registri sovrapposti.
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I suoi temi si legavano alla religione ariana, sostenuta da Teodorico. Per questo, al momento della conquista bizantina della città, su iniziativa del vescovo Agnello, parte della decorazione venne cancellata. Furono risparmiate solo alcune parti: le Storie di Cristo, i Santi e i Profeti nel registro mediano e in quello superiore; le scene con le vedute del Porto di Classe e del Palatium di Teodorico nel registro inferiore.
Cleristorio della Basilica di Sant’Apollinare Nuovo. Ravenna. Mosaici del VI sec.
Cleristorio della Basilica di Sant’Apollinare Nuovo. Veduta della parete sinistra. Ravenna. Mosaici del VI sec.
Verso la stilizzazione
Alcuni mosaici teodoriciani della Basilica di Sant’Apollinare Nuovo richiamano ancora l’ideale artistico tardoantico e presentano, talvolta, panneggi e pose leggermente differenziate. I Santi e i Profeti del registro mediano, quello con le finestre, hanno, per esempio, vesti chiaroscurate e ricche di pieghe. Inoltre, nonostante il fondo oro, appoggiano i piedi su un piano prospettico.
Cleristorio della Basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. Veduta del registro mediano con le finestre e le figure dei Santi e Profeti e del registro superiore con le Storie di Cristo. Mosaici del primo quarto del VI sec.
Tuttavia, nel loro complesso, questi capolavori musivi tardo-paleocristiani mostrano, rispetto a quelli del Mausoleo di Galla Placidia, i segni di una significativa evoluzione stilistica. Ogni volontà di realismo è stata abbandonata, mentre prevale la ricerca di stilizzazione. I personaggi sono differenziati da proporzioni gerarchiche, in base alla loro importanza. Il fondo oro, adottato sull’esempio dell’arte contemporanea di Costantinopoli, crea ambientazioni non naturali che alludono a una dimensione ultraterrena.
Le Storie di Cristo
Ciò è verificabile soprattutto nelle Storie di Cristo che si trovano sul registro superiore della decorazione musiva. Si tratta di un ciclo di 26 scene tratte dal Nuovo Testamento. Ogni singola storia è contenuta all’interno di un riquadro rettangolare. Gesù vi compare nella tradizionale iconografia del Cristo imberbe, ad eccezione che nelle scene della Passione, in cui è presentato barbuto. Tra una storia e l’altra si ripete l’immagine simbolica di un padiglione sormontato da una croce e da due colombe.
Cristo con la Samaritana al pozzo, 500-525 ca. Mosaico. Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo.
Resurrezione di Lazzaro, 500-525 ca. Mosaico. Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo.
L’Ultima cena
Il mosaico con l’Ultima cena è uno dei più interessanti, apparendo chiaramente più come il frutto di un’astrazione che di una rappresentazione. Non vi è ambientazione storica, perché il fondo oro rende il contesto privo di riferimenti spazio-temporali.
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Gesù, la cui figura è più grande delle altre, secondo il principio delle proporzioni gerarchiche, indossa una veste color porpora ed è sdraiato sulla sinistra. Gli apostoli, che dovrebbero apparire in cerchio, sono disposti, quasi fossero le carte aperte di un mazzo, intorno a un “arco” che in realtà sarebbe la concavità della tavola. Sulla mensa campeggia un piatto con due grandi pesci, il cui significato simbolico rimanda chiaramente alla figura di Cristo.
Ultima cena, 500-525 ca. Mosaico. Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo.
Ultima cena, 500-525 ca. Particolare con i pesci. Mosaico. Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo.
Cristo che divide le pecore dai capretti
La scena del Cristo che divide le pecore dai capretti (e quindi, allegoricamente, i buoni dai cattivi) ricorda, in apparenza, quella del Buon Pastore del Mausoleo di Galla Placidia, di cento anni precedente, per la presenza delle pecore e la scelta di raffigurare Gesù imberbe.
Tuttavia, a differenza che nel precedente esempio paleocristiano, in questo caso Cristo è rigorosamente immobile, mentre i due angeli non sono propriamente collocati in uno spazio ma risultano letteralmente uniti agli animali che, in teoria, dovrebbero stare avanti. Tutti i personaggi, affiancati in primo piano e rigidamente frontali, risultano privi di volume. Le loro immagini sembrano letteralmente ritagliate nella carta e incollate una sull’altra.
Cristo che divide le pecore dai capretti, 500-525 ca. Mosaico. Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo.
Buon Pastore, prima metà del V sec. Mosaico. Ravenna, Mausoleo di Galla Placidia.
La prospettiva paleocristiana
La spiritualità cristiana non trovava nell’illusionismo prospettico, concepito alla maniera della pittura greco-romana, una propria identità capace di soddisfare le nuove esigenze religiose. Infatti, già nel tardo V secolo, l’arte iniziò a fare uso di composizioni aprospettiche prive di scorci o di punti di fuga, il cui risultato è decisamente poco fedele rispetto alla normale visione che un osservatore ha della realtà.
Quando la funzione didattica e didascalica dell’arte richiedeva allusioni a spazi reali, si preferì frantumare l’unità spaziale, privilegiando una ricomposizione schematica dei singoli episodi. Nella Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, ad esempio, le due scene con il Palazzo di Teodorico e il Porto di Classe non fanno uso né dello scorcio né della prospettiva.
Il Palazzo di Teodorico, 500-525 ca. Mosaico. Ravenna, Sant’Apollinare Nuovo.
Il Palazzo di Teodorico
Il Palazzo di Teodorico si trova sulla parete di destra (guardando verso l’altare). L’edificio, che presenta la scritta latina PALATIUM (Palazzo) nella parte bassa della cornice del timpano, è disegnato in modo da presentare, su di un solo piano, i tre prospetti di un cortile porticato, o peristilio, che, nella realtà, si presuppongono essere disposti “a U”. Le regole della rappresentazione naturalistica, in questo caso, sono state drasticamente superate, nell’intento di facilitare la “lettura” e la comprensione del palazzo in ogni sua parte.
Il Palazzo di Teodorico, 500-525 ca., particolare. Mosaico. Ravenna, Sant’Apollinare Nuovo.
Le colonne su cui si impostano gli archi sono di ordine corinzio. Sopra ogni capitello, un angelo tiene dei festoni. I portici del peristilio sostengono delle basse logge con il tetto coperto di tegole. Gli edifici che si intravedono oltre il Palazzo rappresentano la città di Ravenna.
Questo mosaico subì, in età bizantina, una forma di damnatio memoriae: tutte le figure, che probabilmente ritraevano Teodorico stesso e i suoi dignitari, furono cancellate e sostituite da drappeggi bianchi e oro appesi tra una colonna e l’altra. Rimangono alcune mani sovrapposte alle colonne a testimoniare la loro antica presenza.
Il Palazzo di Teodorico, 500-525 ca., particolare. Mosaico. Ravenna, Sant’Apollinare Nuovo.
Il Porto di Classe
Il mosaico con il Porto di Classe si trova, invece, nella parete sinistra, guardando verso l’altare, proprio di fronte al Palazzo di Teodorico. Classe era, ed è ancora oggi, una frazione di Ravenna. Il suo nome deriva dal latino Classis, che significa “flotta”.
Sin dall’epoca romana, questa cittadina di mare ospitò una flotta permanente e in età bizantina divenne il più importante porto militare d’Occidente. Nel grande mosaico di Sant’Apollinare vediamo le mura cittadine merlate, alte e possenti, da cui sbucano alcuni edifici molto stilizzati, tra cui un anfiteatro. All’estrema destra si apre la porta della città, sopra la quale si legge CIVI[TAS] CLASSIS, Città di Classe.
La città e il porto di Classe, 500-525 ca. Mosaico. Ravenna, Sant’Apollinare Nuovo.
A sinistra, tra due alte torri in pietra, si intravede l’acqua dell’Adriatico. Il mare è rappresentato verticalmente e anche le tre navi sono mostrate una sopra l’altra, come se fluttuassero nell’aria. Questo rientra nella logica della rappresentazione aprospettica paleocristiana. Se le navi si fossero correttamente sovrapposte, seguendo le regole della prospettiva, non sarebbero state tutte perfettamente visibili.
La città e il porto di Classe, 500-525 ca. Particolare con le torri e le navi. Mosaico. Ravenna, Sant’Apollinare Nuovo.
La città e il porto di Classe, 500-525 ca. Particolare con le navi Mosaico. Ravenna, Sant’Apollinare Nuovo.
Qualcosa del genere era già stato prodotto dalla pittura egizia e mesopotamica, millenni prima. Lo si ritroverà nella pittura del tardo Ottocento e del Novecento. Tale sistema di rappresentazione, che ignora consapevolmente la verosimiglianza, ricompare, insomma, in tempi, luoghi e contesti molto distanti fra loro, nel tempo e nello spazio. Ciò accade perché si tratta di un modo autonomo di concepire la raffigurazione, il quale può risultare tendenzialmente estraneo al gusto estetico occidentale, così intriso di classicismo, ma che chiaramente è insito nell’arte stessa.
Paul Cézanne, L’Estaque, 1878-79. Olio su tela, 73 x 92 cm. Parigi, Museo Picasso.
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